martedì 3 aprile 2018

IL MISTERIOSO «LIBRO DI DZYAN» (Articolo completo - II parte)



IL MISTERIOSO «LIBRO DI DZYAN»

(Articolo completo - II parte)




Abbiamo visto che la cosmologia e l’antropologia descritte nel misterioso “Libro di Dzyan” presentano aspetti affascinanti ed inquietati al tempo stesso; ed è, forse, per tale ragione che esso - se esiste, è d’uopo precisare - è sempre stato circondato da un’atmosfera, più che di sospetto, di vera e propria esecrazione, tanto da essere considerato un ‘libro maledetto’ (anche per gli influssi malefici che sarebbe in grado di esercitare sui ‘profani’ che lo avvicinassero senza il doveroso atteggiamento spirituale).

Aggiungiamo ora che, appunto, uno degli aspetti più affascinanti ed inquietanti della cosmologia in esso contenuta è la straordinaria analogia con una teoria scientifica recentissima: quella che i fisici odierni hanno battezzato Super-Spin. La cosa è stata notata, fra l’altro, da uno studioso del calibro di Corrado Malanga, da sempre interessato al tentativo di ‘spiegare’ la fenomenologia ufologica - e, in modo particolare, i bruschi movimenti delle astronavi, effettuati ad altissima velocità, che contrastano con le leggi a noi note della fisica - in termini di aggiornamento del nostro paradigma scientifico e di profonda revisione dei concetti correnti della fisica classica; e alle sue ricerche in proposito rimandiamo il lettore. (1)

Rinunciando completamente, in questa sede, ad approfondire l’aspetto propriamente scientifico dell’ipotesi Super Spin, ci limiteremo a dire che, in essa, vengono rispettate le leggi della rotazione (Spin), ammettendo però che la natura della nostra percezione dei fenomeni fisici sia tale da poter deformare apparentemente le leggi dello spazio-tempo e i rapporti reciproci fra massa ed energia. In altri termini - come è stato osservato, appunto, da Malanga – l’ipotesi Super Spin (non accettata da tutta la comunità scientifica internazionale) sarebbe deterministica sul piano ontologico e indeterministica sul piano epistemologico: ossia, si basa sull’assunto che esiste un Universo oggettivo, ma che la struttura dei nostri processi conoscitivi ci porta inevitabilmente ad averne una percezione di tipo indeterministico (si pensi solo al principio d’indeterminazione di Werner Heisenberg e al paradosso del gatto di Schrödinger, che può essere contemporaneamente vivo e morto: vero e proprio caso-limite della visione indeterministica del reale).

Resta il fatto che, se nelle prima parte delle “Stanze di Dzyan” di Helena Petrovna Blavatsky (dalla prima alla settima stanza) viene esposta, come cosmogonia dell’Universo, una realtà che - indipendentemente dal suo grado di attendibilità - contiene una precisa descrizione di quella che i fisici odierni hanno definito SSH (ovvero Super Spin Hypothesis), bisogna ammettere che il libro “La Dottrina Segreta” non può essere sbrigativamente liquidato come un’opera del tutto fantastica o delirante. Difficile, infatti, pensare che Madame Blavatsky, se era puramente e semplicemente un’astuta mistificatrice, come i suoi detrattori sostengono, abbia potuto precorrere con tale lucidità una teoria fisica altamente sofisticata, la quale, nel contesto culturale e scientifico della seconda metà del XIX secolo, era addirittura inimmaginabile.

Torniamo, quindi, inevitabilmente, alla necessità di guardare all’opera originale cui la teosofa russa avrebbe attinto, ossia il misterioso testo tibetano “Il Libro di Dzyan”, con una certa qual dose di rispetto, nonostante il fatto - indubbiamente imbarazzante, per la mentalità scientifica oggi dominante - che non esistano prove sicure della sua esistenza, quanto meno nei termini in cui ci è stato da lei descritto.

In altre parole, di là dalla circostanza se Helena Blavatsky abbia materialmente avuto accesso, oppure no, al “Libro di Dzyan”, resta da spiegare come ella possa avere avuto conoscenza di eventi (o teorie, secondo i punti di vista) che, ripetiamo, indipendentemente dal loro statuto di verità fattuali, restano pur sempre sbalorditivi dal punto di vista speculativo. I fatti esposti nelle “Stanze”, in effetti, potrebbero anche non essere mai accaduti; ma il solo fatto che qualcuno abbia potuto pensarli nel 1800, questo è qualcosa di per sé terribilmente affascinante.

Nella precedente parte di questo lavoro avevamo seguito, con il saggista francese Yves Naud, le prime vicende relative alla divulgazione, presso il pubblico occidentale, del “Libro di Dzyan”, da quando Jean Sylvain Bailly e Louis Jacolliot, per primi, lo menzionarono, fino a quando in esso si imbatté la giovane Helena Blavatsky. Questa era fuggita dalla Russia in compagnia di un’amica, lasciandosi un ricco e anziano marito alle spalle - che la famiglia le aveva quasi imposto - per recarsi, via Costantinopoli, in Egitto, ansiosa di abbeverarsi alla dottrina esoterica che, nella Valle del Nilo, affonda le sue più antiche origini.

Qui era entrata in stretti rapporti con uno strano personaggio di religione cristiano-copta, un mago o sedicente tale, il quale, per la prima volta, le aveva parlato di un misterioso libro dai poteri malefici e dalla dottrina segreta; e le aveva anche dato un prezioso consiglio su come evitare di subirne l’influsso nefasto.

Scrive dunque Yves Naud, nel suo ampio lavoro “Enigmi degli U. F. O. e degli Extraterrestri”, da noi già citato anche nella prima parte del presente articolo (2):

Al Cairo Helena vive con un mago di origine copta che le rivela l’esistenza di un libro maledetto, dai poteri nefasti. Per evitare d’incorrere nella maledizione del “Libro di Dzyan”, basta leggerlo «per chiaroveggenza». Secondo il mago, il manoscritto rivelerebbe i segreti degli altri pianeti e l’arrivo sulla terra di «dei dello spazio» parecchi milioni di anni fa. Gli «dei» sarebbero stati originari di Venere, definito dal manoscritto «pianeta reale del sistema solare». Poco tempo dopo l’arrivo sulla Terra, le divinità venusiane avrebbero fondato vari regni iniziatici come l’Atlantide o la Monarchia di Mu, nell’area occupata oggi dall'Oceano Pacifico…(3) (…)

A quelle rivelazioni, l’immaginazione della signora Blavatsky s’infiamma immediatamente. Essa afferma di aver letto, per chiaroveggenza, il “Libro di Dzyan”, il che non appare impossibile se si tien conto dei suoi doni eccezionali. (4)

Ma è proprio il “Libro di Dzyan” che ha letto? Taluni sostengono sia stato Apollonio di Tiana a rivelare all'Occidente l’esistenza di quel libro. Infatti, secondo il biografo di Apollonio, Filostrato, il filosofo greco, a quanto pare, fu accolto con ogni onore dai saggi indù, che l’avrebbero iniziato ai loro più occulti segreti e, in particolare, gli avrebbero dato il “Libro di Dzyan”, di cui forse Apollonio avrebbe riprodotto una parte.

Questa teoria sembra corroborata da alcuni passi di Apollonio. Il filosofo afferma infatti che nelle Indie esistono dei manoscritti vecchi di parecchi millenni. Quei libri sarebbero portatori di un’antica sapienza e testimonierebbero l’esistenza di civiltà scomparse in un remotissimo passato. Alcuni di quei testi sacri sarebbero stati portati in Egitto da Apollonio e affidati a società segrete religiose. Il mago copto, che pare fosse membro di una di quelle società, avrebbe permesso alla signora Blavatsky di consultare il Libro di Dzyan. (…)

Dopo aver convissuto per qualche tempo col mago, la signora Blavatsky lascia il Cairo e va a Parigi dove vive grazie agli aiuti fornitigli dal padre. In seguito si reca a Londra e in America dove avvicina i Mormoni e viene iniziata al Vudu.

Tornata a Londra, pare che abbia fatto conoscenza con un certo Koot Hoomi Lal Singh, a proposito del quale i pareri sono discordi. Secondo gli uni, non è esistito che nell’immaginazione della signora Blavatsky. Secondo altri, sarebbe esistito solo come «proiezione delle forze mentali» di iniziati indù che in tal modo mantenevano il contatto con Helena. Secondo altri ancora, era un agente di una setta segreta indù che avrebbe fatto della signora Blavatsky lo strumento dell’indipendenza dell'India. Ultima ipotesi: Koot Hoomi sarebbe stato un agente dell’Intelligence Service.

In realtà, nessuno sa esattamente chi sia stato quel misterioso personaggio.

Una cosa sola è certa: tra Koot Hoomi e la signora Blavatsky si stabilì una corrispondenza. Tutti i temi vi vengono affrontati: la religione, la fisica nucleare (cento anni fa!), la linguistica, ecc. Helena, che era totalmente incolta, diviene d’un tratto uno dei personaggi più colti del secolo! Le sue conoscenze vanno dalla semantica alla chimica spaziando per tutte le scienze antiche, presenti e future.

Qui sta il mistero. Come faceva, ad esempio, la signora Blavatsky a conoscere nella sua epoca gli effetti devastanti della… bomba atomica? Nessuno lo sa.

Le malelingue suggeriscono che sia stato Robert Stow Mead, il suo segretario, che possedeva una vasta cultura, ad aiutare la signora Blavatsky a dar prova di genio! Ma è opportuno ristabilire la verità: Mead conobbe Helena solo nel 1889, cioè tre anni prima della sua morte, mentre i libri scritti dalla signora Blavatsky, “La Dottrina Segreta”, “Il Simbolismo Arcaico delle Religioni” e “Iside Svelata”, sono di parecchio anteriori a quella data. Inoltre, anche un brillante allievo di Cambridge come Mead non poteva aver scoperto la fissione dell’atomo prima di Curie e di Einstein! (…)

Nel 1855 la signora Blavatsky riceve ripetuti avvertimenti: se non restituisce immediatamente l’esemplare del “Libro di Dzyan” che sostiene di possedere, la sventura si abbatterà su di lei.

A partire da quel momento, la vita di Helena diviene un vero e proprio incubo: nel 1860 si ammala e, per tre anni, percorre tutta l’Europa come braccata da una forza invisibile.

Nel 1870, mentre torna per mare dall’Oriente, la nave esplode. La maggior parte dei viaggiatori sono ridotti in polvere. Non si tratta di un modo di dire: nessun cadavere viene ritrovato, i corpi sono letteralmente polverizzati. Come? Taluni avanzano l’idea di una bomba atomica tattica. La signora Blavatsky rimane incolume per miracolo.

Arrivata a Londra, organizza una conferenza stampa ma un folle tenta di ucciderla. Arrestato, l’uomo sostiene di essere stato teleguidato e di non essere stato padrone dei suoi atti. Ancora una volta la signora Blavatsky sfugge a un attentato.

Per scongiurare la maledizione del “Libro di Dzyan” Helena organizza una conferenza stampa per presentare il manoscritto. Ma il libro scompare misteriosamente dalla cassaforte dove era stato accuratamente riposto.

Orami la signora Blavatsky è convinta che una potenza occulta minacci la sua vita. (…)

Alla fine del 1874, la signora Blavatsky si reca negli Stati Uniti, dove incontra il colonnello Henry Steel Olcott, un uomo d'affari appassionato di occultismo. Insieme fondano la Società teosofica, l’8 settembre 1875.

A partire da allora, lo strano diviene parte integrante della vita di Helena. Quando il barone de Palm, un membro della Società, muore, la signora Blavatsky chiede al governo degli U.S.A. l’autorizzazione a cremarlo. Quando il corpo viene deposto nel crematorio, il braccio destro del barone si solleva. Nello stesso momento, un incendio scoppia a Brooklyn: un teatro brucia e duecento persone periscono nell’incendio.

Qualche tempo dopo il colonnello Olcott e la signora Blavatsky si apprestano a partire per l’Asia per incontrarsi con i Grandi Maestri della Loggia Bianca. Il presidente degli Stati Uniti, vivamente interessato a quella missione, li considera suoi inviati speciali e concede loro passaporti diplomatici.

Il 16 febbraio 1879, la missione arriva alle Indie dove viene ricevuta dal pandit Schiamij Krishnavarma. Ma gli avvenimenti prendono una piega estremamente spiacevole: la polizia inglese perseguita letteralmente gli sventurati teosofi. Il colonnello Olcott protesta vigorosamente:

«Il governo dell’India ha ricevuto falsi rapporti a nostro riguardo, basati sull’ignoranza o sulla malizia, e siamo stati posti sotto sorveglianza in modo così maldestro da richiamare l’attenzione di tutto il Paese e si è dato a credere agli indigeni che il fatto di essere nostri amici avrebbe attirato su di loro le ire degli alti funzionari e avrebbe potuto nuocere ai loro interessi personali. Gli intenti lodevoli e benefici della Società sono stati pertanto gravemente intralciati e siamo stati vittime di indegnità assolutamente immeritate a seguito della decisione del governo, ingannato da false voci». (…)

Se le persecuzioni poliziesche diminuiscono, le minacce degli ignoti persistono e si fanno ancora più serie di fronte all’ostinazione della signora Blavatsky nel voler parlare del “Libro di Dzyan”. La teosofa si spinge perfino a tradurlo in inglese, traduzione pubblicata dalla Hermetic Publishing Company di San Diego negli Stati Uniti.

Davanti alla sua caparbietà, gli ignoti reagiscono e la colpiscono in ciò che le sta più a cuore: l’occultismo. La Società di ricerche psichiche, un’associazione inglese, pubblica un rapporto sulla signora Blavatsky accusandola di ciarlataneria.

La pubblicazione del rapporto distrugge moralmente Helena che, da allora,, appare ridotta a uno straccio. Strani fenomeni continuano a prodursi attorno a lei, ma apparentemente Helena non è più in grado di controllarli.

Un suo compatriota, V. S. Solv'ev, accompagna la signora Blavatsky in uno dei suoi ultimi viaggi, a Eberfeld, in Germania. Una notte, nella sua stanza all’albergo Victoria, Solo'ev riceve una strana visita provocata, egli pensa, dalla signora Blavatsky.

Ecco il racconto di quell’apparizione, pubblicato sul Messaggero della Russia:

«D’improvviso mi destai. Ero stato svegliato da un soffio caldo. Al mio fianco, nell’oscurità, si ergeva una figura umana di alta statura vestita di bianco. Udii una voce, non saprei dire in che lingua, ordinarmi di accendere la candela. Accesa la candela, vidi che erano le due del mattino e che un uomo vivo stava accanto a me. L’uomo somigliava al ritratto del mahatma Morya che avevo visto. Mi parlò in una lingua che non conoscevo ma che cionondimeno capivo. Mi disse che avevo grandi poteri personali e che avevo il dovere di usarli. Poi svanì. Ma subito riapparve, sorrise, e, sempre nella stessa lingua sconosciuta ma intelligibile, disse: “Stia pur certo che non sono un’allucinazione e che lei non sta uscendo di senno”. Poi scomparve di nuovo. A quel punto erano le 3. La porta era ancora chiusa a chiave». (…)

Doveva essere uno degli ultimi ‘miracoli’ della signora Blavatsky, che si ritira a Parigi dove talvolta la si vede in Notre-Dame-des-Champs. Poco tempo dopo andrà a Londra, dove muore nel 1891.

Dopo la morte, numerosi discepoli ne prendono le difese. Gli Indù soprattutto e, in particolare, E. S. Dutt, che critica violentemente il rapporto della Società di ricerche psichiche.

Le idee della signora Blavatsky trionfano. Pare che la Società Teosofica abbia svolto un ruolo primario nell’indipendenza dell'India. Mohandas Karamchand Gandhi, il liberatore dell’India, sostiene di dovere molto a Helena Petrovna Blavatsky.

Ultimo strascico della vicenda: poco tempo dopo la scomparsa della signora Blavatsky, i suoi difensori rivelano pubblicamente che essa fu vittima di un complotto in cui si ritrovano il governo inglese, la polizia del viceré dell’India e alcune persone non meglio identificate, ma che sembra appartenessero a una potente società segreta. (…)

Ma perché si voleva ad ogni costo far scomparire il “Libro di Dzyan”? Quali terribili segreti nasconde? Dai frammenti di cui disponiamo, sembra che il Libro di Dzyan rimetta in discussione i fondamenti stessi della scienza e della religione.

Quelli che seguono sono alcuni passi, piuttosto oscuri, bisogna riconoscerlo, tratti dal ‘libro maledetto’:

Strofe I

«Non c’era il tempo, che riposava nel seno infinito della durata…

…E la vita batté inconsciamente nell’universo.

… I sette nobili signori e le sette verità avevano cessato di essere…»

Strofe II

«…Dove erano i costruttori, i figli luminosi… quelli che estrassero la forma dall’informe, la radice del mondo.

… L’ora non era ancora scoccata; il raggio non aveva ancora attraversato il germe…»

Strofe III:

«… L'ultima vibrazione della settima eternità penetra l’infinità.

La vibrazione si propaga, con la sua ala viva essa tocca l’universo intero e il germe che abita nell'oscurità, che respira sotto l’acqua dormiente della vita…

La radice della vita era contenuta in ogni goccia dell’oceano dell'immortalità e l’oceano era di luce raggiante e la luce era fuoco, calore e moto. L’oscurità scomparve, non esisteva più…

Guardate lo spazio chiaro che è figlio dello spazio oscuro… da ora in poi, brilla come il sole; è il divino drago fiammeggiante della saggezza.

Dove era il germe, dove era l’oscurità?…

… Il germe è l’azione e l’azione è la luce, figlia raggiante e bianca del padre oscuro e ascoso». (…)

Strofe IV:

«… Figli della Terra, ascoltate i vostri maestri, i figli del fuoco…

… Ascoltate ciò che a noi, discendenti dei Sette originari, che siamo nati dalla fiamma originaria, ascoltate ciò che a noi hanno insegnato i nostri padri

Dallo splendore della luce, che raggiava nella notte eterna, scaturirono nello spazio le energie risvegliate… E degli uomini-dei emanarono le forme, le scintille, gli animali santi e i messaggeri dei padri santi».

Strofe V:

«… A loro volta, i sette primi soffi del drago della saggezza crearono il vento di fuoco che turbina grazie al soffio santo volteggiante.

… L’agile figlio dei figli divini… descrive cerchi e compie la sua missione… Attraversa le nubi fiammeggianti come il lampo…

… Egli è lo spirito che li conduce e li guida. Per iniziare la sua opera, invia da ogni parte le scintille del regno inferiore che planano, tremanti di gioia, nelle loro dimore raggianti…»

Strofe VI:

«… Il Rapido e il raggiante… pone l’universo sulle pietre eterne…

Egli le conforma a modello delle antichissime ruote e le fissa al centro con elementi imperituri.

Come sono state conformate da Fohat? Egli raccoglie la polvere del fuoco. Fa delle palle di fuoco, le attraversa, gira loro attorno e dà loro la vita, poi le mette in movimento… Esse sono fredde, egli le riscalda. Esse sono secche, egli le inumidisce. Esse illuminano, egli le ventila e le placa. Tale è il lavoro di Fohat da un crepuscolo all’altro, nelle sette eternità…

… Il seme materno riempiva il tutto. Lotte ebbero luogo tra le creature e i distruttori, lotte ebbero luogo per lo spazio».

Strofe VII:

«… Guardate l’inizio della vita sensibile che non ha forma. A tutta prima il Divino, lo spirito materno che è uno…

… Quel raggio unico moltiplica i più piccoli raggi…

… Poi i costruttori, che hanno indossato di nuovo la loro prima veste, scendono verso la terra raggiante e regnano sugli uomini - e anche loro lo sono…». (…)


Pare che il “Libro di Dzyan” racconti la storia dell’evoluzione del mondo. Diciotto milioni di anni fa, esseri senza ossa e senza intelligenza avrebbero popolato la terra. In seguito, sarebbe nata una razza pacifica: parallelamente, si sarebbe sviluppata una razza di giganti mostruosi, più vicini all’animale che all’uomo.

Nel 9564 a. C. alcune terre sarebbero state inghiottite dall’oceano. Taluni affermano trattarsi dell’Atlantide. Chi lo saprà mai? (…)

Ancor oggi il “Libro di Dzyan” è al centro di vivaci polemiche.

Nel suo libro “Argumente für das Unmögliche” (Argomenti per l'impossibile), pubblicato a Vienna nel 1969, edito dalle edizioni Econ, lo scrittore tedesco Erich von Däniken, che ha svolto un’indagine approfondita sul libro misterioso, sostiene che l’originale è stato conservato per millenni nelle cripte del Tibet.

«Nessuno al mondo» scrive von Däniken, «ne conosce la vera età. Si dice che l’originale sia più antico della Terra. Si dice anche che sia stato così magnetizzato che i ‘privilegiati’ che lo prendevano in mano vedevano svolgersi davanti ai loro occhi gli avvenimenti descritti e al tempo stesso potevano comprendere nella propria lingua i testi misteriosi grazie a impulsi ritmici, in relazione alla ricchezza del vocabolario della loro lingua.

Quella dottrina segreta fu conservata per millenni nelle cripte tibetane. Top secret. Si dice che essa potesse costituire un enorme pericolo nelle mani di un ‘ignorante’. Il testo originale - che non sappiamo se esiste ancora - fu ricopiato testualmente di generazione in generazione e arricchito di nuovi apporti dagli iniziati. (…)

Il “Libro di Dzyan” sarebbe nato dall'altra parte dell’Himalaya. Per vie ignote, le sue dottrine penetrarono fino in Giappone, in India e in Cina, e ritroviamo la sua influenza filosofica perfino in certe tradizioni sudamericane. Comunità segrete che si celavano nelle gole sperdute del massiccio del Kun-lun o tra i profondi burroni del massiccio di Altin Tagh - tutti e due situati nella parte occidentale dell’attuale Cina rossa - vegliavano su raccolte di libri di ricchezza inestimabile. Le comunità abitavano in templi miserabili. Gallerie e sotterranei racchiudevano i loro tesori letterari. In quei sotterranei era conservato anche il “Libro di Dzyan”. I primi padri della Chiesa si adoperarono in ogni modo per scacciare quella dottrina dalla memoria di coloro che ne erano venuti a conoscenza, ma tutti i loro sforzi furono vani e i testi si tramandarono oralmente di generazione in generazione.

All’estero, mi hanno spesso parlato di quella dottrina, ma non ho mai incontrato qualcuno che abbia visto una copia ‘autentica’ del testo. In tutto il mondo, i passi del Dzyan conservati o, più esattamente, conosciuti, abbondano di testi tradotti dal sanscrito. Sulla scorta delle attuali conoscenze, questa straordinaria dottrina conterrebbe l’antica parola originaria - la formula della creazione - e narrerebbe l’evoluzione dell’umanità che abbraccia milioni di anni».

Il carattere ‘eretico’, se non addirittura blasfemo, del “Libro di Dzyan” consisterebbe, dunque, nel fatto che l’idea di una razza umana - anzi, di una serie di razze umane - create e distrutte dai ‘costruttori cosmici’ adombra un intervento di creature extraterrestri, in realtà per nulla ‘divine’; e che gli dei delle varie religioni antiche altro non sarebbero, quindi, che la rielaborazione mitica di quel primo contatto fra gli umani e gli alieni. Inoltre, non sembra esservi posto, in questa concezione delle origini della vita, né per l’evoluzionismo biologico né per la provvidenzialità divina; a meno di pensare che quest’ultima abbia agito, nei confronti degli abitanti della Terra, servendosi di siffatti ‘costruttori’ alieni.

Ma cominciamo dal nome del libro misterioso.

La parola Dzyan deriverebbe, secondo alcuni teosofi, dal tibetano dhyan (‘saggezza’) o dzin (‘sapienza’), mentre altri esponenti di questa corrente religiosa pensano che essa derivi dal nome di un supposto discepolo di Lao Tse, un certo Li-tsin o Ly-tzyn, al quale sarebbe comparso, mentre era immerso in meditazione, lo spirito dell’imperatore Huang-ti. Questi gli avrebbe consegnato un libro intitolato Yu-Fu-King, ossia «libro delle corrispondenze esoteriche».

Questi tentativi di interpretazione etimologica sono riportati dal saggista tedesco Ulrich Dopatka, che, essendo un ‘discepolo’ del controverso Erich von Däniken, non gode di alcuna considerazione presso gli ambienti scientifici accademici; atteggiamento, questo, che non ci sentiamo di condividere perché, come tutti gli atteggiamenti pregiudiziali, ha il torto di scartare in partenza delle ipotesi di lavoro che potrebbero rivelarsi interessanti e feconde di sviluppi, solo perché contrastano con molte delle nostre ‘certezze’ acquisite o - motivo ancor più banale - perché non sono corredate e autenticate dai debiti dall’imprimatur di qualche lobby universitaria.

A Dopatka si deve anche un altro riferimento assai intrigante, relativo a uno studioso italiano del XIX secolo. Infatti, sembra che già nel 1878 l’orientalista Carlo Puini abbia pubblicato, nel nostro Paese, una sintesi delle dottrine contenute nel “Libro di Dzyan”, precedendo, in effetti, di ben dieci anni “La Dottrina Segreta” di Helena Blavatskij. Ma Puini era uno studioso isolato, mentre Madame Blavatsky era la fondatrice - per quanto assai discussa - di una istituzione che stava acquistando respiro mondiale, quale la Società Teosofica; perciò l’opera del primo rimase confinata all’ambito di pochi specialisti, mentre il libro della seconda raggiunse rapidamente una larghissima diffusione internazionale, a dispetto delle critiche e delle feroci stroncature del mondo scientifico che potremmo definire ‘ufficiale’.

Un altro problema relativo al “Libro di Dzyan” è quello riguardante le fonti originali sulle quali esso si basa, o sulle quali si basa la letteratura esoterica che ad esso si ispira e che, come si è visto, era diffusa in buona parte dell’Asia - ad oriente fino al Giappone e ad occidente fino all’Egitto - assai prima che Helena Blavatsky ne sentisse parlare, per la prima volta, da un mago copto nella città del Cairo; e anche prima che ne sentissero parlare, in Francia, il celebre astronomo Bailly e l’occultista Jacolliot.

Ma cediamo la parola direttamente a Dopatka (5):

A quanto risulta queste dottrine furono pubblicate già nel 1878 dall’orientalista italiano Carlo Puini. Nessuno è riuscito a interpretare scientificamente il contenuto dell’antico testo e Coleman, un teosofo che aveva promesso di presentare le fonti originali, affermò di averle perdute per colpa del terremoto che nel 1906 devastò San Francisco. Quindi le sue origini, in parte interessanti, continuano a essere ignote. Lo storico dell’esoterismo K. Frick lo definisce un risultato delle fusioni eclettiche (selettivamente confluenti) del più arcaico patrimonio intellettuale mitico dell’umanità con le corrispondenze della natura (Camp, Verunckene Kontinente, pp. 65, 68; Frick, Licht und Finsternis, 2. parte, p. 280). Può darsi che nelle pagine del libro in questione si celino effettivamente dottrine esoteriche indiane ch’erano state custodite per secoli nei monasteri dei monti K'un-lun e in quelli fra le gole dell’Altyn-tag.


Un altro elemento interessante della vicenda relativa alla diffusione del “Libro di Dzyan” è poi, come ha ricordato Yves Naud, una sua possibile conoscenza diretta da pare di Apollonio di Tiana, al quale lo avrebbero fatto vedere - o, comunque, gliene avrebbero parlato - alcuni sacerdoti indiani; fatti di cui è rimasta memoria nella biografia di Filostrato, della quale abbiamo avuto già occasione di parlare, in altra sede. (6)

D’altra parte, abbiamo già sostenuto, in un recente articolo, che esistono numerosi indizi i quali fanno pensare che il genere umano sia molto più antico di quanto la scienza evoluzionista continua a sostenere, preferendo evitare di confrontarsi con i fatti piuttosto che vedersi costretta a dar torto alle proprie teorie. (7)

In quella sede, fra le altre cose, abbiamo ricordato l’eccezionale rinvenimento, in una roccia del Nevada antica di 5 milioni di anni, di una impronta di piede umano; anzi, per la precisione, di una impronta di mocassino, con tanto di cuciture ancora visibili sulla tomaia. Il fatto ebbe luogo nel 1922 e ne parlò l’American Weekly, inserto del New York Sunday American.

Oppure abbiamo ricordato l’evidenza delle tracce lasciate dall’acqua piovana lungo la roccia che è stata usata per edificare la Sfinge, presso le piramidi di Giza, in Egitto: acqua piovana che deve necessariamente risalire, quanto meno, all’ultimo periodo post-glaciale, ossia a qualcosa come 10 o 12.000 anni fa.

E l’elenco delle incongruenze archeologiche (che non sono, ovviamente tali, ma piuttosto la prova delle incongruenze del paradigma ufficiale della storia antica), potrebbe continuare a lungo; ma preferiamo fermarci qui.

Helena Blavatsky era fermamente convinta della grandissima antichità della specie umana e, in un’epoca di darwinismo aggressivo e trionfante (si ricordi la celebre disputa fra Huxley e il vescovo Wilberforce), andando contro corrente, osava capovolgere l’idea di una umanità emersa solo di recente da una condizione animalesca.

Nel suo libro “Iside Svelata”, ella a un certo punto afferma (8):

“Le scoperte della scienza moderna non sono affatto in disaccordo con le più antiche tradizioni che affermano l’incredibile antichità della nostra razza. Negli ultimi anni la geologia, la quale una volta ammetteva che l’uomo poteva essere rintracciato fino all’era terziaria, ha trovato prove irrefutabili che l’esistenza dell'uomo risale ad un’era anteriore al primo periodo glaciale dell’Europa e cioè ad oltre 250.000 anni addietro. È un argomento duro questo per la teologia patristica, ma costituisce un fatto accettato dagli antichi filosofi.”

Inoltre utensili fossili sono stati trovati assieme ai resti umani e ciò dimostra che l’uomo cacciava a quei tempi e sapeva accendere il fuoco. Ma un passo successivo non è stato ancora fatto in questa ricerca dell’origine della razza, la scienza si trova ad un punto morto ed attende prove future. Sfortunatamente l’antropologia e la psicologia non hanno un Cuvier e neppure i geologi e archeologi sono capaci di ricostruire con i frammenti finora scoperti lo scheletro perfetto triplice dell’uomo- fisico, intellettuale e spirituale. Il fatto che gli utensili fossili dell’uomo sono più rozzi e meno rifiniti quanto più l’indagine geologica penetra nelle viscere della terra, sembra fornire una prova per la scienza, secondo la quale più veniamo in contatto con le origini dell’uomo, più selvaggio e bruto questi appare. Strana logica: dimostrano forse le scoperte della caverna di Devon che non vi erano razze contemporanee più civili? Quando l’attuale popolazione della Terra sarà scomparsa e qualche archeologo appartenente alle razze dell’avvenire nel lontano futuro scaverà utensili domestici delle attuali tribù indiane o delle isole Andamane avrà forse ragione di concludere che l’umanità del diciannovesimo secolo era proprio «in procinto di emergere appena dall’età della pietra»?

Era di moda parlare «delle concezioni irraggiungibili di un passato incolto»; come se fosse possibile nascondere dietro un epigramma la cava intellettuale dalla quale è stata estratta la fama di tanti filosofi moderni. Proprio come Tyndall, il quale è sempre pronto a non tenere in nessun conto gli antichi filosofi - le cui idee rivestite servirono a procacciare fama e creduto a più di uno scienziato, così pure i geologi sembrano sempre più inclini a ritenere per certo che tutte le antiche razze si trovavano contemporaneamente in uno stato di densa barbarie, Non tutte le nostre migliori autorità sono d’accordo su questo punto. Alcuni dei più eminenti scienziati sostengono esattamente il contrario. Max Müller, per esempio, sostiene che: «Molte cose ci sono ancora inintelligibili e il linguaggio geroglifico dell’antichità registra soltanto la metà delle intenzioni inconsce della mente. Pure l’immagine dell’uomo in qualunque clima la incontriamo, sorge davanti a noi nobile e pura sin da principio e persino impariamo a conoscere i suoi errori e interpretare i suoi sogni. Fino a dove possiamo rintracciare le impronte dell’uomo, anche nei più bassi strati della storia, constatiamo sempre il dono divino di un intelletto sobrio e sano che gli appartiene sin dai primordi. L’idea dell’umanità emergente con lentezza dalle profondità della brutalità animale, non può essere in alcun modo sostenuta».

Si pretende che sia antifilosofico indagare sulle cause prime, perché gli scienziati ora si occupano degli effetti fisici Il campo dell’indagine scientifica è sempre limitato alla natura fisica. Quando i suoi limiti sono raggiunti, l’indagine deve arrestarsi e l’opera ricominciare. Con tutto il dovuto rispetto per i nostri scienziati, essi sono come lo scoiattolo su una ruota in movimento, perché a loro sembra di rivoltare la materia sempre a nuovo. La scienza costituisce una sconfinata potenza e noi, pigmei, non possiamo indagarla. Pure gli ‘scienziati’ non sono la scienza incarnata più di quanto gli uomini del nostro pianeta non siano il pianeta stesso. Noi non abbiamo il diritto di chiedere né il potere di costringere i nostri ‘filosofi moderni’ ad accettare senza sfida una descrizione geografica del lato oscuro della luna. Ma nel caso avvenisse un cataclisma lunare e qualcuno dei suoi abitanti precipitasse nell’attrazione della nostra atmosfera e quindi scendesse sano e salvo nei pressi della porta di casa del dottor Carpenter, questi sarebbe accusabile di falso professionale se mancasse di sciogliere il problema fisico che gli si presenta.

Se un uomo di scienza rifiuta l’opportunità di investigare qualsiasi fenomeno nuovo, sia che gli si presenti sotto forma di un uomo della Luna, sia come uno spirito delle fattorie Eddy, in entrambi i casi è altrettanto responsabile.

Sia che perveniamo con il metodo di Aristotele o con quello di Platone, non dobbiamo arrestarci nell’indagine, ma resta il fatto che tanto la natura interiore quanto quella esteriore dell’uomo si pretende sia stata esaurientemente compresa dagli antichi andrologi. Malgrado le ipotesi superficiali dei geologi cominciamo ad avere quasi prove giornaliere in appoggio alle asserzioni di questi filosofi.

Essi suddivisero gli interminabili periodi dell’esistenza umana su questo pianeta in tanti cicli, nel corso dei quali l’umanità gradualmente ha raggiunto il punto della più elevata civiltà e quindi gradualmente ritornò alla barbarie più abbietta.

A quale grado di perfezione sia arrivata già parecchie volte la razza umana nel suo progresso, si può immaginare osservando i meravigliosi monumenti dell’antichità, tuttora visibili e leggendo la descrizione che ci dà Erodoto delle altre meraviglie di cui non ci rimane più traccia. Persino già ai suoi tempi le costruzioni gigantesche delle molte piramidi e templi famosi in tutto il mondo erano cumuli di rovine, sparse dalla mano implacabile del tempo, e descritte dal padre della storia come «venerabili testimoni della gloria passata degli antenati dipartiti…».

Nonostante le implicazioni critiche nei confronti delle religioni storiche (oltre che dello scientismo allora in auge, non meno di oggi), Helena Blavatsky era uno spirito religioso che cercava di conciliare le esigenze della spiritualità con quelle della conoscenza, sicché potremmo considerare la teosofia, più che una forma di sincretismo religioso fra dottrine orientali e occidentali, una sorta di gnosi dell’età moderna.

E questo può valere anche come chiave di lettura del “Libro di Dzyan” o, quanto meno, di quella traduzione di esso, più o meno fedele, che è contenuta ne “La Dottrina Segreta”.

Ci piace concludere questo saggio riportando il giudizio complessivo di Paola Giovetti sulla figura e sul pensiero dell’autrice di quel vasto, complesso, impressionante libro (9):

Madame Blavatsky sostenne sempre che teosofia è ‘conoscenza’, non fede, e che l’ideale morale più elevato da coltivare è il superamento dell’egoismo e il lavoro incessante per gli altri. Bisogna vivere, diceva, facendo sì che il Sé divino che alberga in ognuno di noi guidi ogni pensiero e ogni azione, in ogni momento dell’esistenza; ovviamente ciò non è facile (e lei stessa non era esente da difetti umani) ma l’importante è fare il possibile per migliorare il proprio modo di agire ispirandosi a quell’alto ideale.

L’anima umana, ella affermò, proviene dall’Anima Universale alla quale ritornerà dopo la morte; nascite e morti sono regolati dalla grande legge del karma, la legge di causa ed effetto che fa sì che nulla resti senza risultato e restituisce ad ognuno la piena responsabilità delle proprie azioni, prima e dopo la vita. La teosofia traccia un cammino infinito per l’anima, che opera per il proprio perfezionamento; e in questo cammino è aiutata dai Maestri il cui compito è imprimere una spinta evolutiva all’umanità.


Una concezione morale di alto livello, dunque.

Se il “Libro di Dzyan” fosse un libro nefasto, non avrebbe potuto contribuire - crediamo - alla formazione di una tale visione del mondo, della vita, del destino finale dell’anima umana.



NOTE


1) Cfr. Corrado Malanga, Oltre la fisica di Star Trek (L’ipotesi di Super Spin), una serie di articoli, spec. il 12.5 Le Stanze di Dzyan, sul sito di Edicolaweb.


2) Les Extra Terrestres et les O. V. N. I. dans l'histoire, traduzione di Gian Luigi Vallotta, Edizioni Ferni, Ginevra, 1977, 3 voll., vol. 1, pp. 162-1174.


3) In realtà - come si è visto nella Prima Parte di questo saggio, la fondazione degli imperi di Atlantide e Mu risalirebbe non a "poco tempo dopo" l'arrivo di questi visitatori spaziali, bensì all'epoca della creazione della cosiddetta Quarta Razza, immediatamente prima della umanità attuale, che costituirebbe la Quinta Razza.


4) Helena Blavatskij, però, sostenne di aver preso visione diretta del manoscritto, e lo descrive scritto «su foglie di palma, ma rese inalterabili al fuoco, all'acqua e all'aria mediante qualche ignoto processo specifico» (in la dottrina segreta, vol.I, p. 63).


5) Ulrich Dopatka, Dizionario Ufo. Glossario di preastronautica (titolo originale: Lexikonder Prä-Astronautik, Wien-Düsseldorf, Econ Verlag, 1979; traduzione italiana di Lucia Mengotti, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1980, p.133).


6) Cfr. Francesco Lamendola, Apollonio di Tiana e il vampiro, sul sito di Edicolaweb; e Mostri, fantasmi e vampiri nel mondo antico, negli Atti Della Società Dante Alighieri di Treviso (a cura di A. Brunello), vol. 6, 2008.


7) Cfr. Francesco Lamendola, Scricchiola il paradigma degli storici sulle origini recenti della civiltà, sul sito di Arianna Editrice.


8) Helena Petrovna Blavatskij, Iside svelata. Parte prima: la Scienza; traduzione dall'originale di E. B., Trieste, Editrice Libraria Sirio s. d., vol. 1, pp. 66-68.


9) Paola Giovetti, I grandi iniziati del nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1993, p. 104.




A cura di Francesco Lamendola


Revisione di Fabrizio Garro

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