lunedì 29 aprile 2019

MISTERI ELEUSINI, PITAGORA, I DRUIDI






Misteri Eleusini, Pitagora, i Druidi

di Ulisse Bacci 


I misteri e le iniziazioni egiziache si ripetono sostanzialmente in Grecia, nei misteri bacchici, dionisiaci, orfici, eleusini. Nella Fenicia la leggenda di Osiride, accomodata ai luoghi, divenne la leggenda di Venere e Adone, che, per la sua meravigliosa bellezza, piacendo ugualmente a Venere e a Proserpina, per sentenza di Giove, a impedire il divino litigio, doveva rimanere per quattro mesi presso dell’una, per altri quattro presso dell’altra e per altrettanto tempo, a compir l’anno, libero e padrone di sé. Però Adone, cacciando sul monte Libano, fu fatto a brani da un cinghiale: Venere tanto pianse sulla salma di lui, che Cocito, discepoli di Chirone, ne ebbe pietà, e restituì Adone alla vita.

L’allegoria, come avverte Macrobio, non potrebbe essere più trasparente. Venere rappresenta l’emisfero superiore, Proserpina l’inferiore: Adone simboleggia il sole che si ferma più a lungo per una certa parte dell’anno a vicenda nell’uno e nell’altro; il cinghiale, che vive di preferenza nei luoghi umidi e freddi e si nutre di ghianda, frutto invernale, è l’inverno che ferisce il sole: la rinascita di Adone rappresenta il ritorno del sole al nostro emisfero. Venere, raffigurata sul monte Libano, genuflessa e in lacrime, è l'immagine della mestizia che siede nel verno sopra il creato. È chiaro che Venere è Iside e Adone Osiride.

Il culto adonisiaco si diffuse rapidamente dalla Fenicia in Siria, in Persia, in Grecia, in Sicilia; perfino la Giudea ebbe il suo Adone in Thammur, che, come narra Ezechiele, era pianto ogni anno dalle donne ebree, assise in silenzio sulla porta delle loro magioni.

I misteri cabirici in poco differenziavano da quelli di Adone: vi si ripetevano le identiche allegorie. Lo stesso può affermarsi delle iniziazioni Frigie e dei misteri dei Coribanti che si celebravano a Pessinunte, nell’equinozio di primavera, in cui il sole trionfa delle tenebre.

I Misteri Eleusini si celebravano in onore di Cerere, la greca Iside, madre e nutrice di popoli, venuta dalla Sicilia, fertilissima di biade, a dar leggi, costumi e patria alle genti selvagge e disperse. Vagò piangendo per il mondo in cerca della figlia Proserpina, rapitale da Plutone. Eleusi la ospitò, le eresse un tempio magnifico e istituì nel suo nome e per il suo culto, feste, misteri, e sacerdozi.

Le feste eleusine duravano nove giorni e consistevano in cerimonie espiatorie, astinenze, lustrazioni, giuramenti di mantenere il segreto. Le iniziazioni sembra si componessero di tre gradi: Telessi, Misti e Copti. Non vi erano ammessi gli epicurei, i barbari, gli empi. Dei rituali, con i quali si celebravano, esistevano più copie ai tempi dell’imperatore Giuliano: fino a noi non ne giunse pur’una: comunque ne scrissero alcuni ed è quindi possibile indurne congetture di verità.

Gli iniziandi venivano coperti di pelli di fiere, a simboleggiare che essi erano quasi selvaggi, quando si avvicinavano al tempio, scuola di cultura e di civiltà. Uno dei simboli più eloquenti è il tramandarsi dall’uno all’altro iniziando della fiaccola accesa, rappresentante la perpetuità della vita e il prodotto dell’ingegno e del lavoro umano che ogni uomo morendo consegna al suo successore; simbolo che Lucezio espresse nella classica frase: «Quasi cursores vitai lampada tradunt». Parlando degli iniziati ai grandi misteri, Platone scriveva: «siccome quelli che sono iniziati, sulle prime si radunano con tumulto e grida, ma, maturandosi i sacri riti, vi attendono con timore e silenzio; così nel principio, innanzi alle porte della Filosofia, si offre alla vista molto tumulto; ma chi viene dentro e vede la gran luce, quasi essendosi aperto il sacrario, prendendo un altro contegno, con silenzio e stupore va appresso alla ragione, umile e composto, come appresso ad un nume».

Olimpiodoro, in un commento al Fedone, descrive così i vari momenti dell’iniziazione Eleusina: «nelle cerimonie sacre si cominciava con la lustrazione pubblica; poi venivano le purificazioni secrete; succedevano le riunioni; quindi le iniziazioni propriamente dette, finalmente le intuizioni».

Apuleio con la sua solita forma concettosa e bizzarra si esprime così: «domanderai forse con non poca ansietà, o studioso lettore, ciò che poi si disse e si fece in quei misteri: lo direi, se il dirlo mi fosse permesso, e tu lo sapresti, se ti fosse permesso ascoltarlo; ma cadrebbero in pari colpa e le orecchie e le lingue per la temeraria curiosità. Comunque, poiché tu sei commosso dal desiderio di apprendere, non ti lascerò in più lunga inquietudine. Ascolta dunque e credi alle cose che sono vere: mi accostai al confine della morte e calpestai la soglia di Proserpina; fui trasportato per tutti gli elementi; feci quindi ritorno. Nel mezzo della notte vidi il sole fiammeggiante di candido lumme, fui in presenza degli dei e li adorai da vicino. Ecco che ti ho raccontato tali cose, le quali, per quanto tu le abbia udite, è forza che ti siano ignote per sempre».

Lo stesso Grisostomo nei suoi discorsi accenna al neofita introdotto sotto volta di ampiezza e magnificenza stupende, e lasciatovi solo in mezzo a spettacoli mai veduti, nei quali le cose belle e terribili, le tenebre la luce si alternavano.
E Claudiano nel Ratto di Proserpina esclama imitando Virgilio: «ritiratevi, profani, un’estasi divina si impadronisce di me: bandisco dal mio cuore ogni sentimento mondano: il tempio trabalza, un gran chiarore spande la fulgore; il dio si svela presente: un sordo rumore freme negli abissi della terra: ne echeggia il tempio di Cecrope, Eleusina agita le sacre torce, fischiano i serpenti di Trittolemo e lontano la triplice Ecate appare». Bacco, nelle Rane di Aristofane, afferma che soltanto gli iniziati abitano i Campi Elisi.

L’Epoptia, il grado supremo dell’iniziazione, riproduceva le pratiche dei misteri Isiaci. Si apriva la cerimonia col solito «Procul esto, profani»; succedevano i giuramenti e le interrogazioni, come nelle cerimonie Adonisiache: susseguivano nuove purificazioni, dove i Misti, o gli iniziati al secondo grado, indossavano pelli di capriolo, quindi abiti nuovi per l’iniziazione: ciò si faceva nel vestibolo, essendo chiusi il tempio e il santuario, che raffigurava l’universo, vasto e magnifico. Ad un tratto si spegnevano lampade e fiaccole: si ripetevano gli orrori e i terrori dell’iniziazioni egiziache. Attraverso le tenebre, per estesi anditi e contorti meandri, l’iniziando doveva aprirsi la via. Visioni paurose simboleggiavano il corso della vita profana: la terra tremava sotto i suoi piedi, il tempio si scuoteva e spaventosi strepiti rompevano i profondi silenzi. Subitanee vicende di luce e di tenebre, fra lampi e tuoni, mostravano spettri, emblemi delle passioni e delle false idee, di cui l’anima pellegrina andava svestendosi.
Arrivato al vestibolo della morte, - dell’uomo vecchio – e poi a quello della iniziazione, - dell’uomo nuovo – ogni cosa assumeva più terribile aspetto, era tutto orrore e sorpresa. Un brivido invade il neofita, sudor freddo lo bagna come quello dell’agonia, barcolla, e sta per mancare, quando repentinamente la scena si cambia: si spalancano le porte del tempio. In mezzo a un torrente di luce appare il simulacro della dea: era l’epoptia, la rivelazione completa della divinità. Avvenuta l’iniziazione, forse avevano luogo danze simboliche, certo si cantavano inni orfici che proclamavano l’unità di Dio, ne esaltavano la onnipotenza, bontà e fecondità. Nel «Mundus Cereris» - libro rituale e scientifico, che ogni iniziato doveva copiare e mandare a memoria – si ricordavano le tradizioni intorno all’origine dell’universo. Clemente Alessandrino afferma infatti che le dottrine rivelate nei misteri si riferivano ai temuti arcani della natura. Gli iniziati apprendevano le cagioni delle fasi lunari e delle eclissi del Sole e tutta la cosmogonia conosciuta dagli Egiziani, esposta nel «Timeo» di Platone e nelle «Metamorfosi» di Ovidio, più che ad altro, intesa a glorificare la prima, sola, universa cagione di tutte le cose, unde – come cantò Virgilio – hominum genus et pecudes, unde imber et ignes; la Caussa Caussarum di Cicerone.

Fra gli inni orfici riproduciamo quello a Cerere, venerata nei misteri eleusini, il quale spira tanto amore e tanta dolcezza, che non cede, se pur non li supera, a quelli meravigliosi di Lucrezio a Venere e di Dante a Maria: «Dea, madre di tutti gli esseri, divinità dai mille differenti nomi – ritorna il concetto di Isis Mirionima – augusta Demeter, nutrice dei giovani; tu che dai ricchezze e felicità, che fai nascer le spighe, che tutti i beni sei prodiga, che godi della pace e dei faticosi lavori dei campi, che diffondi le semenze, accumuli i covoni, benedici l’aia, indori la messe ed eleggesti per tua dimora le sante valli di Eleusi; amabile e graziosa Dea, che nutrisci tutti i mortali, che prima piegasti al giogo il faticante bue e desti agli uomini il migliore e più soave alimento; tu che favorisci la vegetazione, che partecipi agli altari di Bacco, che porti in mano fiaccole, che sei pura, che fai tuo diletto la falce mietitrice; tu che abiti sottoterra; tu che a tutti soccorri; madre feconda che ami i fanciulli; vergine augusta che nutri le crescenti generazioni; tu, che guidi dragoni attaccati al tuo carro, che si piegano con trasporto a formare orbite intorno al tuo trono; madre di un’unica figlia e insieme di molti figliuoli; dai mortali venerata, che sotto mille forme ti sveli, ricca di sacra vegetazione, di mille fiori adorna; vieni, o beata, o santa Dea; vieni carica dei tesori della messe; teco conducendo la pace, il buon ordine, la ricchezza feconda di godimenti e la sanità, di tutti i beni madre e regina».

La leggenda di Cerere facilmente si decompone dinanzi alla critica. Cerere è l’alma parens frugum; Proserpina – in greco, il frutto nascosto – la semenza, il nero Plutone il terreno: quindi l’allegoria della favola. La semenza è sepolta dall’aratro, rappresentato dal ferreo carro, su cui, tratto da neri cavalli, Plutone trasse Proserpina nei regni sotterranei: Cerere, figlia di Saturno – del tempo – e di Opi – della natura – figura il germe che matura col tempo: le fiaccole di pino accese alle vampe dell’Etna, con le quali Cerere rintraccia la figlia, rappresentano il Sole e la Luna che fanno germogliare la semenza; il sotterraneo fiume Aretusa è simbolo del necessario concorso delle acque; Proserpina, costretta a vivere sei mesi con Plutone, e altrettanti con Cerere, è l’emblema dei tempi indispensabili alla fecondazione e alla germinazione. La formidabile Ecate compendia la leggenda: triforme o tergemina rappresentava i tre stati della germinazione: quando il seme è sotterra, è Proserpina; quando spunta, è Diana, amica dei campi; quando, fatto spiga, matura e si innalza, è la Luna che grandeggia nei cieli. E si rappresentava con quattro mani: in una portava una fiaccola, la scienza sacerdotale; nell’altra una chiave, accesso alla scienza; nella terza un serpente, la prudenza a conservar la scienza; nella quarta un flagello, castigo ai traditori della scienza.

Ecate era terrifica a chi scendesse nell’Averno per passare agli Elisi, cioè a qualunque iniziato: invocata solennemente, diveniva depositaria e vindice del giuramento. E sotto l’allegoria semplice del seme che gettato nel terreno, coperto dall’aratro e nutrito dalle acque, si sviluppa, germoglia, cresce e matura, un’altra più profonda dottrina morale si nascondeva: il seme simboleggiava la mente, i processi della vegetazione frumentale adombravano le varie condizioni della mente sino alla maturità, e il frumento, passato per il vaglio, raffigurava la purificazione dell’anima. In questi misteri si conteneva molta parte della greca filosofia, poiché essi, nella poetica simbologia dei fantasmi, custodivano e adombravano l’intima natura ed essenza di tutte le cose. Gli iniziati professarono dunque una filosofia pratica e rappresentativa, ridotta a istituzione per assicurarne la durata, misteriosa per accrescerle sicurezza e venerazione.
Un solo culto si celebrava negli antichi misteri: il culto della natura, personificata, come vedemmo, nel sole.

L’iniziazione ai più alti gradi era lo spogliarsi del simbolismo, veste dei gradi inferiori e di tutti i popoli e di tutte le credenze esoteriche: i supremi iniziati assumevano vesti candide, semplici, modestissime, quali si convengono a maestri e sacerdoti di verità, e si addentravano, spiriti liberi di paure, di passioni, di pregiudizi, nell’intima natura dei fenomeni e delle cose, nello studio delle umane istituzioni per migliorarle e volgerle al bene comune.

I misteri di Eleusi durarono circa duemila anni e vennero fino al 380 dell’era volgare: da ultimo furono abbattuti con la violenza, dall’imperatore Teodosio, o perché fossero, come alcuni ritengono, degenerati, o perché alle vecchie e gloriose istituzioni sacerdotali dovesse, per fatalità storica, sovrapporsi il giovane Cristianesimo.



Pitagora 

 

Di Pitagora, e della sua Scuola Italica, o istituto, o sistema, nulla si sa direttamente da lui: nessuna sua opera poté resistere alla guerra del tempo; ne scrissero ammirati Platone e Aristotele. Nacque da Menesarco a Samo, nella quarantanovesima Olimpiade verso l’anno 584 avanti l’era cristiana; fu discepolo di Feracide, il filosofo – che Cicerone dice contemporaneo di Servio Tullio – e forse di Talete e di Anassimandro. Si crede, come fu detto, che viaggiasse nella Fenicia, nella Persia, nell’India, in Egitto: comunque è certa la parentela fra le iniziazioni egiziache e le pitagoriche. Fermatosi a Cotrone, vi fondò la sua scuola o meglio la sua comunità filosofica, intesa – è bene notarlo per certe attinenze con gli odierni scopi massonici – non solo alla riforma del costume, oggetto della Massoneria simbolica, ma anche della legislazione e della politica, oggetto dei più alti gradi della Massoneria filosofica.
Mischiatosi nelle lotte politiche, dopo la distruzione di Sibari, il sistema o lo stato pitagorico fu assalito da discordie intestine. Cilone, espulso o non ammesso nell’Ordine per cattivi costumi, fu contro i Pitagorici; gli sorprese proditoriamente nella casa di Milone e ne fece macello: le abitazioni loro furono abbattute, dispersi i tesori scientifici e artistici che vi erano raccolti, incendiate le biblioteche. Pitagora poté salvarsi a stento e trovare asilo in altre città; ma poi dovette soccombere, forse anche egli per violenza, a Metaponto, dove Cicerone vide il luogo in cui la tradizione affermava che il grande filosofo avesse incontrato la morte.

Erodoto parla di un ordine segreto dei Pitagorici, di rituali, di culto arcano e di orge. Giova notare che l’orgia non era presso gli antichi ciò che più tardi fu espresso dalla parola: l’orgia cominciò ad assumere significato di stravizio ignominioso, quando le feste di Cerere, dei Cabiri e di Bacco, alterata l’idea che le informava in principio, degenerarono nel più osceno libertinaggio.

Innanzi di essere ammessi nell’Ordine pitagorico, gli iniziandi dovevano subire prove lunghe e difficili. Pensano alcuni, sulla fede di Giamblico, che vi fossero ricevute anche le donne. I precetti pitagorici che giunsero in parte fino a noi col nome di «Versi Aurei», insegnano una morale purissima; combattere e vincere le malattie del corpo, l’ignoranza, le passioni bestiali, le discordie nelle famiglie, le sedizioni nelle città: aiutare i fratelli, non aver inimicizia con loro, fare il bene, dire e propugnare la verità; coltivare ogni virtù, come via per arrivare all’amore: come l’armonia nasce dall’accordo di suoni gravi e acuti, così la virtù derivare dall’accordo di tutte le facoltà dell’anima sotto l’impero della ragione.

Nella Scuola pitagorica prevalgono i simboli numerici e geometrici, fra i quali il triplo triangolo, il pentagono e il cubo, simboleggianti giustizia e uguaglianza perfetta. Secondo Pitagora, che primo dette al mondo il nome di cosmos per indicarne l’ordine e l’armonia, i numeri sono princìpi delle cose e a queste anteriori, e vedeva in essi, piuttosto che nel fuoco, nella terra, nell’acqua, assoluta analogia con ciò che è e si produce. Una data combinazione numerica era per i Pitagorici la giustizia, tale altra l’anima o l’intelletto, e trovavano nei numeri le combinazioni dell’armonia musicale. Gli elementi dei numeri confusero con gli elementi degli esseri; dissero che gli enti sono a imitazione dei numeri e Platone, che tanto attinse alla scuola Pitagorica e che intitolò uno dei suoi migliori dialoghi da Timeo – discepolo di Pitagora – disse che gli enti sono per loro partecipazione coi numeri: la formula è diversa, ma identica la dottrina.
È certo che i Pitagorici aprivano le loro riunioni a mezzogiorno, trattenendosi in speculazioni filosofiche, in esercizi ginnici e anche in canti e in suoni. La sera si sedevano alla mensa comune: a mezzanotte si separavano. Tanta fu la venerazione dei Pitagorici per il loro maestro, che cessava ogni controversia quando potesse invocarsi la sua autorità: quindi il famoso «ipse dixit» che Cicerone attribuisce appunto ai discepoli di Pitagora.

Dopo l’eccidio dei Pitagorici, la scuola si disperse e ammutolì, ma lo spirito che l’informava le sopravvisse e penetrò e agitò quel recondito moto sociale e filosofico che procede parallelo e costantemente avverso alle manifestazioni del pensiero teologico, al dogma religioso e politico, che inceppa la libertà del filosofo e del cittadino. Questa antitesi meravigliosa, che nel sistema pitagorico era adombrata nel conflitto fra gli opposti numeri e principi, unità e plurità, pari e dispari, inerzia e movimento, luce e tenebre, bene e male, continua attraverso la storia, genera le sante ribellioni dello spirito umano e determina, nei tempi nostri, le vittorie della libertà. Ecco forse perché le istituzioni che intendono all’emancipazione dell’intelletto e della coscienza, fra le quali primissima la Massoneria, considerano Pitagora come uno dei loro antichissimi progenitori, come un punto lontano, da cui si stacca quel raggio luminoso, che disperde le tenebre e i mali addensati sull’umanità dalla superstizione e dal privilegio e prepara la desiderata e divinata età, nella quale il trinomio massonico, sinceramente e integralmente tradotto nel diritto pubblico, darà sicuro, armonico, fraterno componimento al consorzio civile.



I Druidi 

 


Una tradizione, in verità non troppo attendibile, vorrebbe che Pitagora avesse viaggiato anche fra i Druidi togliendone dottrine e norme per l’istituto da esso fondato in Cotrone. Certo il Druidismo professò princìpi non disformi dai Pitagorici; ammetteva un ente supremo e l’immortalità dell’anima. Molta affinità ebbero i Druidi anche con i Magi Persiani e con i Bramini dell’India. La verga druidica ricorda il sacro bastone braminico e la mezza luna di Shiva. I Druidi adorarono il fuoco, emblema del sole, ed ebbero in pregio l’uovo di serpente, prodigioso amuleto, che ricorda l’uovo cosmogonico delle mitologie orientali, la metempsicosi, o la riproduzione eterna degli esseri, che il serpente appunto simboleggiava. Ebbero templi circolari e scoperti nelle dense foreste, con immani pietre e tronchi effigiati, simulacri dei numi: portavano capelli corti, intiera barba e vestivano lunghe e candide tuniche. L’Ordine aveva tre gradi: i Druidi, i Bardi, gli Ovadi, cioè sacerdoti, cantori, educatori. L’aspirante doveva presentarsi ai templi selvosi con catene alle braccia, quasi servo che andasse in cerca di libertà. Ammisero anche le donne e una Druidessa e la spaventevole vendetta che i Druidi trassero di lei perché rea di violato giuramento di castità, inspirarono una delle più belle opere di Vincenzo Bellini.

Principale parte nei loro riti ebbe l’osservazione dei fenomeni planetari e sembra che le loro lunazioni rivelassero computi astronomici esattissimi. Furono i più fieri e implacabili nemici di Roma. Compiuta da Cesare la conquista delle Gallie, i Druidi furono dispersi, ma rimasero i Bardi, se non come sacerdozio, come possente corporazione, e anche essi ebbero iniziazioni e assemblee che tenevano in eminente e solinga pianura dinanzi alla faccia di Dio. Il Bardo, che presiedeva, stava assiso sopra pietra altissima: sguainando o ringuainando la spada apriva e chiudeva l’adunanza. Finirono nel 400 sotto l’impero di Odoardo III il Normanno che li fece trucidare, ne distrusse le case, ne bruciò i libri e ne disperse ogni reliquia.
Parenti dei Bardi furono i Drotti della Scandinavia. L’Edda descrive le iniziazioni ai sacri misteri: al neofita si insegna il nome del più antico dei numi – Al-fader – il Teutate druidico – che ha dodici nomi, a ricordare i dodici attributi del sole, le dodici costellazioni, i dodici sommi Dei degli Egizi e del paganesimo greco e romano. La leggenda di Balder – il buono – costituiva verosimilmente l’oggetto del cerimoniale iniziatorio nella teogonia scandinava: esso era Mitrea, il sole, l’amore. Fra gli dei del Valhalla v’è Hoder, il cieco – il destino – e Loke – il genio malvagio – e Freja – Iside, Cerere, la natura – e Thor – Ercole – e Nifiheim – l’inferno. La teogonia scandinava ispirò la Trilogia Wagneriana «l’anello del Nebilungo» poema musicale per vastità di concepimento, per magnificenza e solennità di musica, insuperato e, forse, mai più superabile.



Ulisse Bacci
tratto da “Il libro del vero Massone”
(dal Capitolo Origini)
Gherardo Casini Editore 



(Dal sito del Centro Paredesha)
 




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MERLINO E LA LEGGENDA DEL GRAAL

MERLINO E LA LEGGENDA DEL GRAAL

di Rosalba Nattero 




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La leggenda del Graal ha influenzato profondamente tutta la mitologia celtica - La controversa figura di Merlino - Un'esperienza ancestrale che ancora oggi viaggia tra le pieghe della storia - La cerca del Graal ai giorni nostri
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ll sempre crescente interesse per la cultura celtica è un fenomeno che andrebbe analizzato in profondità. Fino a una decina di anni fa, il celtismo era un argomento per pochi appassionati. Poi improvvisamente è stato il boom: la cultura celtica, soprattutto supportata dalla magia della sua musica, è entrata prepotentemente nelle nuove tendenze uscendo da una nicchia sommersa. I media sono corsi ai ripari rilanciando l'argomento in tutti i modi possibili e da ogni parte sono nati esperti sull'argomento.
Film come Braveheart hanno scosso profondamente le coscienze tanto da provocare nelle sale applausi spontanei tra gli spettatori.
Il kilt è addirittura entrato nelle sfilate di moda, la cornamusa e l'arpa vengono usate nella pubblicità o in manifestazioni che di celtico hanno ben poco.
Ma cos'è che nel celtismo colpisce così tanto da far scattare una sorta di identificazione? Come mai è in continuo aumento il numero delle persone che, visitando posti come Scozia, Irlanda, Bretagna, ma anche Asturie, Paesi Baschi, si sentono "a casa"? E qual è il motivo per cui, ascoltando la musica che questi Paesi esprimono, avvertiamo uno strano richiamo interiore, a cui magari non sappiamo dare un nome?
Sta di fatto che la cultura celtica non lascia indifferenti, ed è per questo che molti cercano di farsene un'idea più precisa cercando fonti che illuminino sull'argomento. Ma purtroppo questo non è né facile né a portata di tutti. Le fonti e le testimonianze originali giungono da quegli autori che rappresentano il potere di chi li ha soppiantati: i Romani, e ciò che sappiamo della religiosità dei Celti ci arriva da quei monaci fieri di aver "convertito" il druidismo in cristianesimo.
Per cercare di penetrare il messaggio originale di una grande civiltà come quella celtica - il primo e finora unico esempio di Europa Unita - occorre dunque cercare una chiave adatta, e questa ce la può fornire il mito del Graal.
La cultura celtica ruota attorno al mito del Graal. In questo mito c'è tutto il senso della spiritualità e dell'approccio esistenziale dei Celti. Ma troppe parole ammantano questo simbolo da sempre e il suo significato rischia di rimanere oscuro. Occorre dunque cercare di bypassare le interpretazioni di parte e cercare in quelle tradizioni pre-cristiane che hanno segnato la storia dell'umanità.
Il Graal è quell'oggetto misterioso che è stato raffigurato, a seconda degli autori, come coppa contenente la conoscenza, come pietra con poteri soprannaturali, come libro di sapienza. Ma il simbolismo, al di là della forma, non cambia: il Graal è un'esperienza e contemporaneamente un percorso all'interno di se stessi, una via mistica alla ricerca della conoscenza. E questo simbolo ha segnato profondamente la religiosità dei Celti, tant'è vero che lo si ritrova in pressoché tutte le saghe e i racconti mitologici dei Celti.
Per comprendere la leggenda del Graal dobbiamo rifarci ad alcuni elementi-chiave. Il primo di questi è quell'esperienza ancestrale che tutte le tradizioni dell'umanità ricordano. Presso gli aborigeni australiani esiste il mito del "dreamtime" (alcheringa) che esprime molto bene questa esperienza. Il dreamtime è una dimensione parallela, che trae le sue origini da un'esperienza vissuta dall'umanità dei primordi e mantenuta viva dalla tradizione sciamanica degli aborigeni. Una condizione di eterno presente, tra visibile e invisibile, a cui si può accedere solo con la chiave adatta.
Entrando nell'esperienza del dreamtime ci si inserisce in un continuum esperienziale a contatto con la conoscenza ancestrale dell'umanità, mantenuta viva e reale proprio dal dreamtime.
Una credenza analoga la troviamo presso gli indiani Hopi, che periodicamente si incontrano spiritualmente con i loro antenati totemici, i Katchina, per ricevere insegnamenti relativi alla loro vita spirituale.
Altre tradizioni parlano di età dell'oro, di condizione edenica, ma il concetto è sempre lo stesso: è esistito un tempo in cui l'umanità ha vissuto un'elevatissima condizione spirituale ed ha realizzato un'esperienza che viene mantenuta viva tra le pieghe della storia. Che cosa c'entra il Graal? Il Graal è quell'esperienza; è lo sviluppo di una conoscenza spirituale e insieme il suo contenitore.
Molte leggende fanno trapelare che il Graal fece per la prima volta la sua comparsa sulla terra quando l'umanità era ancora molto giovane e inesperta, e il Graal costituì lo stimolo per compiere un salto evolutivo.
Ma tutte le tradizioni concordano anche sul fatto che questa condizione edenica fu bruscamente interrotta, forse per catastrofi naturali, forse per conflitti planetari. L'esperienza dell'umanità si disperse senza lasciare apparenti tracce. In realtà l'esperienza ancestrale non andò perduta, come si legge chiaramente proprio nel mito del Graal.
Il Graal è questa esperienza, è lo scrigno che contiene la memoria storica dell'umanità e contemporaneamente il metodo per realizzarla in qualsiasi epoca. Secondo le leggende ci fu un tempo in cui una grande scuola spirituale varcò i confini dei continenti e unì il mondo in un'unica esperienza planetaria. I templi megalitici, sparsi un pò ovunque sul pianeta, ne sono il ricordo e la testimonianza.
Sempre secondo le leggende, tale scuola in vista di tempi bui sentì il bisogno di occultarsi e di proteggere l'esperienza raggiunta, in modo che si potesse conservare integra. Il Graal, la coppa del sapere attorno cui si radunavano i puri di cuore, ad un certo punto scomparve dalla storia, apparentemente andò perduto. Da questo fatto nacque tutta quella fiorente cultura medievale basata sulla "cerca" del Graal.
In realtà il Graal fu nascosto da custodi che intendevano conservarlo al sicuro per tempi migliori. Ovvero, come esprime benissimo il senso del "dreamtime" australiano, la tradizione esiste ed è ben viva, pronta per essere penetrata da chi è maturo per capirla. E passiamo ad un altro elemento-chiave della leggenda del Graal: la figura di Merlino. Una figura controversa, a volte poco comprensibile.
Merlino è stato dipinto come un saggio, come un pazzo, come un mago, come un demone. Emblematico è il modo in cui Merlino compare nella leggenda: egli nasce dall'unione di una vergine con un demone.
Questo fatto gli conferisce la facoltà di conoscere sia il passato sia il futuro, e fin dai primi giorni di vita egli sa bene qual è il suo compito nella storia. Egli conosce il significato del Graal, e la sua missione è intimamente legata a questo. Merlino in sostanza viene su questo mondo per un motivo ben preciso: riconquistare il Graal e ripristinare l'antica tradizione sul pianeta. E per questo compito egli sa bene che deve trovare una persona idonea ad essere preparata per un incarico quanto mai difficile: istituire la famosa tavola rotonda che darà il via alla conquista del Graal e al ripristino dell'antica esperienza ancestrale.
Ma chi è dunque Merlino? Nel cercare di penetrare l'identità di un personaggio descritto nei modi più svariati dal corpus di leggende medievali e preistoriche, si delinea la figura di un individuo che sta in bilico tra visibile e invisibile, tra scienza e magia, tra bene e male. Una sintesi fra l'uomo di scienza e il mago, e non ci stupisce che la figura del druido incarni le stesse caratteristiche. Ma ciò che rende Merlino un personaggio particolare è l'attualità del suo ruolo. Egli non è un personaggio avulso dalla storia. Al contrario, le sue caratteristiche lo rendono attuale in ogni tempo, perché in ogni tempo sono esistiti, ed esistono, uomini che cercano di dare un senso alla propria vita e si inoltrano in un percorso di ricerca senza limiti né confini.
In definitiva, Merlino è il ricercatore che vive in ognuno di noi, il filosofo che emerge quando sentiamo il bisogno di dare una risposta ai nostri interrogativi esistenziali, senza intermediari e senza steccati ideologici. Il Graal, ancora una volta, diventa lo strumento conoscitivo per eccellenza che, nelle mani del mago Merlino, rappresenta la speranza di un futuro migliore per l'umanità.
Ma Merlino non agisce in prima persona: ha bisogno a sua volta di un mezzo operativo, rappresentato da Artù. E approdiamo così al terzo elemento-chiave: la saga di Re Artù. Artù è il personaggio su cui Merlino investe tutte le sue energie fin dalla nascita. La vita di quest'ultimo ha infatti l'unico apparente scopo di preparare Artù, fin dal suo concepimento, al futuro regno. Per questo fine Merlino si ingegna a creare le condizioni idonee affinché Artù sia concepito, successivamente ne ottiene l'affidamento e lo istruisce fin dalla più tenera età per trasformarlo nel guerriero più valoroso del mondo.
La simbiosi che esiste fra Merlino e Artù fa pensare ad una identificazione dei due personaggi, visti come due parti di un unico individuo: quella sacerdotale e quella guerriera. Tutta la vita di Merlino farebbe propendere per questa ipotesi: Merlino passò la prima parte della sua vita in completo isolamento, si dice nel cuore della foresta di Broceliande, in Bretagna, a formarsi spiritualmente. Si dice che colloquiasse con gli alberi e con gli animali. Si dice che ereditò l'antica conoscenza del popolo dei megaliti. Si dice che fu lui, con la sua magia, ad erigere i grandi massi del tempio di Stonehenge....
Ma nella seconda parte della sua vita egli si dedica ad un unico obiettivo: l'addestramento di Artù. Non è forse facile pensare ad un monaco che, dopo aver raggiunto le più alte vette della conoscenza interiore, decide di sviluppare la parte mancante, cioè il guerriero, per aiutare l'umanità nel suo cammino evolutivo?
Sta di fatto che Artù, divenuto re, sotto la guida saggia di Merlino, istituisce la tavola rotonda attorno cui raduna i suoi più fidati e valorosi cavalieri, allo scopo di conquistare il Graal e di istituire il più grande e più illuminato regno della storia.
Il movimento nato intorno alla tavola rotonda rispecchia una mentalità molto particolare che neppure le traduzioni cristiane riescono a cancellare. Artù e i suoi cavalieri vivevano, sopra ogni altra cosa, il valore della fratellanza. Per la fratellanza combattevano e morivano, e nulla al mondo avrebbe potuto indurli a tradirla. Il legame che li univa era così forte da permettere loro di superare le inevitabili contese, come ad esempio l'amore che Ginevra, la moglie di Artù, nutriva per Lancillotto, senza peraltro togliere nulla al suo consorte.
Un altro valore imprescindibile era l'uguaglianza: la tavola era rotonda proprio per non creare discriminazioni, e tutti i convenuti erano eguali, senza distinzioni, compreso lo stesso Re. Ogni decisione veniva discussa e l'assemblea era sovrana. Un vero esempio di democrazia diretta.
Il regno di Artù conobbe grandi momenti di gloria e prosperità. Il disegno di Merlino si realizzò attraverso l'istituzione di una società giusta e illuminata, dove regnava l'uguaglianza e la saggezza.
Questo fino a quando Artù, presagendo pericoli in agguato, sentì la necessità di preservare l'esperienza acquisita per tempi migliori, e si ritirò nell'isola di Avalon insieme al Graal. Le leggende dicono che egli stia dormendo, in attesa di essere risvegliato quando i tempi saranno maturi e l'umanità pronta a ricevere il Graal.
L'elemento più significativo, vero filo conduttore della leggenda, è sempre il Graal. A volte sembra perfino un elemento estraneo alle vicende narrate, eppure è tramite questo che Artù seleziona i partecipanti alla sua tavola. Il Graal si rivela come una fonte di benessere per i puri di cuore; per chi ne è indegno, invece, si rivela distruttivo senza possibilità di appello. Questo fa intendere una conoscenza che conferisce un potere immenso a chi ne viene in possesso, ma lascia intendere anche quanto sia pericolosa la conoscenza se usata da chi ne fa uno strumento di potere personale.
Il Graal, nella saga arturiana, si rivela in definitiva l'elemento catalizzatore attorno cui ruotano i destini dell'umanità. Un'esperienza ben precisa che viaggia accanto alla storia per segnarne il destino. Come il dreamtime australiano, è una dimensione viva e reale che non si vede, non si sa dove sia eppure c'è e accompagna da sempre la storia dell'uomo, pronta a rivelarsi solo a chi la cerca disinteressatamente.
Questi gli elementi essenziali che hanno caratterizzato il mondo celtico. Ne emerge l'identità di un popolo in bilico fra visibile e invisibile, cosciente della precarietà del mondo materiale e continuamente proteso verso la dimensione dell'"autre monde", il mondo reale da cui trae ispirazione e insegnamento.
Valori come fratellanza, uguaglianza, rispetto per il prossimo e per la natura, oltre che una ricerca tra scienza e mistero, sono le costanti di tutta la mitologia celtica. Come non rimanerne affascinati? Forse, chi si sente attratto da questa tradizione in realtà si identifica negli stessi ideali, spera in un mondo migliore, cerca anch'egli il suo Graal.





New Earth Circle news maggio 1998

martedì 9 aprile 2019

LA MAGICA IRLANDA DEGLI DEI TUATHA DE DANAAN - terza parte


LA MAGICA IRLANDA DEGLI DEI TUATHA DE DANAAN - terza parte -

 


Si chiude con questo articolo un lungo lavoro di ricerca e di rielaborazione dei testi per riassumere in maniera molto concentrata un affascinante periodo relativo alla storia dei Tuatha de Danaan e della fantastica isola di Irlanda tra mito e leggenda per conoscere le probabili origini risalenti ai tempi post-diluviani.

Ci siamo lasciati con la vittoria dei Tuatha de Danaan sui Fomore, grazie al coraggio e all’abilità di Lugh, il quale con grande destrezza tirando di fionda, secondo una versione, o tirando la sua lancia, la magica Slea Bua, secondo un’altra versione, riuscì a mettere fuori uso l’occhio malvagio di Balor uccidendo in questo modo lo stesso gigante. Durante la battaglia, Nuada detto braccio dArgento, re dei Tuatha, morì ucciso dal demone della morte evocato da Balor, dopo che aveva sconfitto Indech, il generale dei Fomore. Lugh, che vuole dire Luce, veniva chiamato anche Lug Lamfadha, che sta a significare “il braccio lungo armato”, per la straordinaria capacità di scagliare la lancia a lunghissima distanza, molto simile a una divinità indù, Savitar, conosciuto come “ha l’ampia mano”. Ma aveva altri nomi ognuno dei quali indicava le sue molteplici doti. Fra questi era infatti detto il Samildanach, ossia il competente in molte arti. Per questo venne ricordato come un eroe e un dio nella mitologia irlandese. E fra le arti più preminenti era quella della guerra.
Il bel dio della luce, il biondo senza barba, possedeva alcuni oggetti molto particolari : oltre alla Slea Bua, aveva anche Areadbhar, la lancia una volta appartenuta al re di Persia Pisear con capacità distruttive impressionanti; Aenbharr il cavallo donatogli dal potente druido Manannan Mac, che era in grado di viaggiare per terra e per mare; la barca magica Sguaba Tuinne che come quella di Manannan andava velocissima sulle acque; Tathlum definito un missile sparato da lui così come descritto in una poesia da O’Curry. Di Lug si racconta che :” E’ stato sul cielo con la sua Tathlum, che era il fulmine, la sua fionda-pietra era l’arcobaleno e la Via Lettea è stata chiamata la catena di Lugh”. C’è da domandarsi che tipo di tecnologia era in grado di usare il mitico Lugh Lamfadha, fatta passare per oggetti magici, secondo tradizione?
Il regno di Lugh durò 40 anni in pace e in prosperità, fino a quando non venne ucciso dai fratelli Mac Cuill, Mac Cecht e Mac Greine per una questione di tradimenti e di vendetta per la morte del loro padre Cermait, figlio di Dagda. Presumibilmente Lugh venne sepolto a Newgrange, luogo, a tutt’oggi esistente, ricco di fascino e di mistero.

Gli fu dedicato il primo giorno di Agosto (Lugnasad), reputandolo quindi come il dio della fertilità, oltre al Sole e alla Luce. Con l’avvento del Cristianesimo, sebbene molte feste continuarono ad essere celebrate ugualmente, la figura di Lugh venne sostituita con quella di San Michele, molto popolare in tutta l’attuale Irlanda e nelle isole britanniche. Tra i figli di Lugh, il più famoso fu il leggendario Cu Chulainn, il quale pur non essendo un gigante, aveva doti soprannaturali e notevoli abilità di combattimento come suo padre. Ma di Cu Chulainn avremo modo di riparlarne in un altro capitolo a parte.

Negli annali irlandesi, Annàla Rìogdhachta Eireann, sono menzionate le date delle antiche invasioni d’Irlanda. L’ultima invasione avvenne nell’Anno Mundi 3500, corrispondente al 1698 a.C. quando un popolo proveniente dalla Galizia, una regione della Spagna settentrionale, raggiunse le coste irlandesi, capitanato dai figli di Míl Espáine, per dare battaglia contro i Tuatha De Danaan. Erano i celti gaelici, meglio conosciuti come i Milesi o Milesiani e furono gli ultimi invasori alla conquista della bella terra di Eriu. Sconfissero i Tuatha de Danaan ormai giunti a un periodo di decadenza. I tempi in cui i Tuatha erano campioni di vita, di luce e di civiltà erano giunti al termine, scendendo allo stesso livello di malvagità e di oscurità dei loro vecchi avversari, i Fomore. Così come era avvenuto per i Fomore, questa volta furono i Tuatha de Danaan a doversi arrendere difronte alla nuova forza superiore dei Milesiani, ritenuti i nuovi legittimi regnanti, quali portatori di equilibrio e prosperità. Non tutto andò perduto per gli sconfitti, in quanto tramite un accordo con i nuovi arrivati, ottennero il permesso di restare comunque in Eriu ma andando ad abitare nelle profondità della terra. Così i Tuatha de Danaan non scomparvero del tutto. Di tanto in tanto si facevano presenti nella vita comune degli umani. In ogni modo il loro ruolo sulla terra era finito; appartenevano adesso al mondo di un’altra dimensione, quello che attualmente potremmo definire il mondo magico degli elfi. Come ricordo dei loro oggetti più preziosi ci rimasero i 4 tesori dai poteri straordinari: la spada di Luce di Nuada (Claimh Solais), la lancia di Lugh, il calderone di Dagda che poteva rifornire cibo in abbondanza e senza fine per tante persone; infine la Pietra del Destino, la Lìa Fàil, che emetteva un grido se veniva calpestata da un legittimo Re Supremo di Irlanda.

Il primo a tramandare per iscritto le invasioni di Eriu, non fu uno storico irlandese, bensì un britannico di nome Nennius, intorno all’anno 830. In buon latino, descrisse, nel suo Historia Britonnium, l’arrivo degli Scoti in Hibernia, in un’epoca successiva all’invasione della Britannia da parte dei Pitti. Il resoconto di Nennius tratta di una serie di migrazioni dalla Spagna verso l’Irlanda, la prima fra queste fu quella di Partholomus (da cui i Partoliani) insieme a mille persone tra uomini e donne, e si trova in perfetto accordo con quanto riportato nel Lebor Gabála Erren.
Il Lebor Gabála Erren, ossia il libro della presa d’Irlanda in Irlandese medio, tradotto poi in inglese ne: il Libro delle Invasioni, è una raccolta di fatti storici e pseudo-storici tra leggenda e mito, floklore e agiografia cristiana scritto in prosa e in poesia da un anonimo del XI secolo, per mettere insieme un enorme puzzle sulle origini del popolo irlandese. Ispirato all’opera scritta “Etymologiae Origines” di Isidoro di Siviglia, inizio VII secolo, prendendo anche spunto dai testi di Timagene di Alessandria (I secolo a.C.) sulle origini celtiche nell’Europa continentale dei Galli, e con un’ottica giudaico-cristiana, ripassa i passi biblici della genesi, per risalire agli antenati dei popoli Irlandesi. Nel capitolo 10 si narra la prima discendenza di Noè attraverso i suoi figli, Sem, Cam e Iafet ai quali, dopo il Diluvio Universlae, vennero assegnati i vasti territori del mondo antico. Sem si stabilì in Asia, Ham (o Cam ) in Africa e Iafet in Europa e nell’Asia settentrionale. Da Iafet si ebbe una lunga lista di discendenti molti di essi provenienti dal secondo figlio Magog, al quale era stata assegnata l’immensa area dell’Asia centrale che comprende attualmente il Kazakhistan, Uzbekistan, Turkmenistan,Kirgikistan ecc., quindi l’area del Caucaso, e dal quale discesero il popolo degli Sciti e dei Gomeriani. Gli Sciti furono una razza di cavalieri ed abili arcieri, noti per la loro alta statura, pelle chiara e capelli biondi o rossi che costrinsero i Gomeriani a migrare in Europa e a sud della Russia nel 700 a.C. I Gomeriani furono il terrore di mezza Europa antica.

Ma 40 giorni prima del Diluvio, Eiru fu toccata ,secondo gli irlandesi, da Cesair e i suoi compagni. Cesair era figlia di Bith, il quarto figlio di Noè: lei e i suoi compagni non poterono prendere posto nell’Arca, pertanto si dovettero arrangiare con i propri mezzi a vagare in mare cercando di scampare all’imminente diluvio. I Muintir Cesrach (le genti di Cesair), mal equilibrati perché composti da 50 donne e da soli tre uomini (Bith. Ladra, Fintan), purtroppo scomparvero travolti da un cataclisma, senza lasciare alcuna traccia del loro arrivo, se non la memoria della loro esistenza tramandateci da Fint mac Bóchra, divenuto immortale.

Passato il Diluvio, Eiru rimase disabitata per trecento anni, fino a che non arrivò un popolo formato all’inizio da un piccolo gruppo di persone per lo più agricoltori, guidato da Parthólon, e da lui prese il nome del popolo dei Partholiani (Muintir Parthóloin). Parthólon era figlio di Sera, figlio di Esrú, figlio di Braiment , figlio di Aithecht, figlio di Magog, figlio di Iafet, figlio di Noè. Egli dovette fuggire dalla Schitia, perché colpevole dell’assassinio di re suo padre. Il popolo dei Partholoniani combattè una dura battaglia contro i Fomori, rappresentati come giganti mostruosi provenienti dal mare. In seguito furono decimati da una terribile pestilenza, nessun sopravvissuto. Ma la memoria delle loro gesta fu tramandata da Tuan mac Cairill. Dopo molto tempo giunse sull’isola Nemed con la sua gente (i Nemediani). Di origine anch’esso dalla Scithia, apparteneva alla stessa stirpe dei Parthololiani, in quanto il suo antenato era Tat, fratello di Parthólon. I Nemediani detti anche Clanna Nemid, combatterono anch’essi i Fomori in una cruenta battaglia navale, nel corso della quale un’immensa ondata spazzò via le flotte di entrambi gli schieramenti. Secondo il resoconto di Nennius, i Nemediani intravidero una Torre di vetro su un’isolotto al largo delle coste irlandesi, dalla quale si scorgevano uomini che non rispondevano a nessun richiamo e che furono una sorta di provocazione alla guerra. I pochi sopravvissuti nemediani abbandonarono Eriu per ritornare alla patria di origine, in Schitia, dove furono presi e ridotti in schiavitù. Molto più tardi un altro gruppo di discendenza nemediana sbarcò in Eriu. I nuovi colonizzatori erano suddivisi in tre parti che giunsero sull’isola in tempi diversi:i Fir Domnam, i Gaileoin e i Fir Bolg che secondo l’etimologia irlandese significa “uomini dei sacchi”. Ma se Bolg fosse considerato un nome proprio allora sarebbero stati gli “uomini di Builc” secondo i testi di Nennius che fanno riferimento ai Belgi, un popolo che abitava a sud dell’antica Britannia.

I Fir Bolg furono allora i regnanti incontrastati di Eriu fino a che non giunsero dalle isole più a nord i Tuatha de Danaan composti da druidi e guerrieri con i loro poteri sprannaturali. Quest’ultimi discedevano dalla stessa stirpe di Nemed (“… Magog, figlio di Iafeth, della sua progenie sono le genti che vennero in Irlanda prima dei Gaelici: vale a dire Partholon, figlio di Sera, figlio di Sru, figlio di Esru, figlio di Bimbend, figlio di Magog, figlio di Iafeth; e Nemed figlio di Agnomain, figlio di Pamp, figlio di Tat, figlio di Sera, figlio di Sru…; e la progenie di Nemed, i Gaileoin, i Fir Domnann, i Fir Bolg e i Tuatha de Danaan.” – dal Lebor Gabala Erren).
Per ultimi e non meno importanti giunsero i Mac Míled dalla Spagna. I loro capi erano i cinque figli di Mil Espaine, il milite ispanico il cui antenato risaliva a Gáedel Glas. Questi era figlio (secondo un’altra versione si reputa che fosse stato lo sposo) della principessa d’Egitto Scota, e di Nel, a sua volta figlio di Feinius Farsaid, colui che scese dalla Shitia per contribuire alla costruzione della Torre di Nemrod, (Tuir Nebrod), meglio conosciuta come la Torre di Babele e fu colui che dopo la distruzione di questa, nella generale confusione, creò la lingua del gaelico estratta dalle 72 lingue. Nél, figlio di Feinius Farsaid, figlio di Bath, figlio di Ibath, figlio di Gomer, fratello di Magog e figlio maggiore di Iafeth, figlio di Noè, in disaccordo con il padre emigrò in Egitto passando dalla Grecia, e qui si graziò le simpatie di corte, ottenendo la mano della figlia del faraone Anchecheres (basandoci sulle cronache dell’egizio Manetone) quindi il corrispettivo di Ankhenaton. La principessa, chiamata Scota successivamente, di nome era Ankhesenamun (già menzionata in un post precedente). Accusato di aver preso le parti degli Israeliti durante la loro cacciata dall’Egitto, Nél fu costretto ad abbandonare la terra fertile del Nilo e imbarcarsi insieme alla sua famiglia di sangue reale per un lungo viaggio fino ad approdare in Spagna e da qui i suoi discendenti presero di nuovo il largo per conquistare l’isola di Eiru. Secondo un’altra versione sembra che se ne ritornò in Shitia e successivamente i suoi discendenti i Maic Miled di Mil Espaine, giunsero fino in Spagna. I Milesi o Milesiani divennero gli ultimi conquistatori di Eiru diffondendo così la lingua antica d’Irlanda, il Gaelico. La tradizione volle insegnare che il destino di Irlanda, seguendo la logica dei cicli evolutivi di ascesa e decadenza dei regni, assegnasse l’Isola di Smeraldo ai suoi legittimi eredi della lunga discendenza da Iafeth, figlio di Noè, i Milesiani sostituendo il mitico popolo dei Tuatha de Danaan, gli Dei del Nord. 





Fonti internet: Mysterious world – Giants of Ireland

Le invasioni di Eriu – i popoli venuti dal mare – Celti Irlandesi – Bifröst Miti

Lebor Gabala Erren – Book of Leinster (“The Book of the taking of Ireland” 1150 A.D.)



domenica 7 aprile 2019

LA MAGICA IRLANDA DEI DRUIDI E DEGLI DÈI TUATHA DE DANAAN - seconda parte -


LA MAGICA IRLANDA DEI DRUIDI E DEGLI DÈI TUATHA DE DANAAN 

- seconda parte -

La dea Danu, poco si sa di lei, la più antica testimonianza irlandese del 1000 a.C. Lebor Gabala, riporta il significato del suo nome che vuol dire insegnante, saggezza. Dea dell’abbondanza e della fertilità, ma da studi più approfonditi sembra che Danu non sia attestata in nessuna fonte irlandese, per cui la trasformazione dal nome Danu a Danaan fosse un’improria interpretazione letteraria di fine ‘800, primi del ‘900, periodo in cui si era diffuso l’entusiasmo per la passione della cultura celtica con tutto il suo misticismo. Quindi gli autori di più di un secolo fa, si erano affidati all’ipotesi degli studiosi del tempo che avevano attribuito al nome di Danu l’immagine della dea madre di tutti gli dèi (irlandesi) paragonata alla greca Demetra, poi associata alla fertilità e all’abbondanza come la dea madre dispensatrice di vita e di nutrimento per tutti gli esseri viventi vegetali ed animali, in seguito trasformata nella dea regina degli inferi e delle forze sotterranee. De Vries riteneva che Danu avesse in qualche modo un richiamo con la divinità indoeuropea collegata con la dea madre universale Aditi appartenente alla mitologia indiana, con il carattere ambiguo tanto benigno quanto maligno, molto più simile alla dea indiana Kalì.

Niente di più e niente di meno l’ipotesi più accreditata resta quella secondo i recenti studi, in cui Tuatha de Danaan si riferiscono letteralmente alla Tribù di Danaan, lasciando invariato il nome della madre divina in quanto il nome Danaan si ritrova senza traslitterazioni nel Libro delle Invasioni d’Irlanda: Danaan, figlia di Delbàeth Tuirill Bìcreo, e madre dei tre figli Brian, Iuchar e Iucharba avuti dopo un rapporto incestuoso con lo stesso padre Delbaeth. Danaan fu la madre dei primi tre dèi Tuatha che, come riportato nel poema Lebor Gabàla, era proprietaria terriera insieme a sua sorella Bé Chuill e in un verso del Cath Maige Tuired era esperta in stregoneria. Nella contea di Chiarrai (Kerry), nel Luachair Deaghaidh, ci sono due colline gemelle alte poco meno di 700 mt che sembrano due seni di una donna supina. Non per nulla sono state chiamate in medio irlandese Dà Chich nAnann, che vuole dire i “due seni di Anu” e cioè la dea Ana/Anu la quale risulta menzionata da una fonte antica del Sanas di C.Mac Culennain, dove viene definita la madre degli dèi irlandesi. Il nome stesso deriva dalla parola Anae che significa abbondanza e che compare anche nell’antica Roma rappresentata da Anna Perenna, e ancora più lontano in India con Annapurna. Apparentemente sembra esserci un collegamento per via della simile desinenza tra Anann e Danaan ma un dettaglio descritto nei versi 62 e 64 del libro Lebor Gabàla Erenn, le distingue come due divinità diverse l’una dall’altra, in particolare Anann: sorella di Badb e Macha, le tre figlie di Ernmass. “...Ernmass aveva altre tre figlie, Badb Chatha, Macha e Morrigan, il cui altro nome era Anann...”, conosciuta meglio come la strega che dimorava nella caverna delle Dane Hills. Quindi Anann è il corrispettivo della terribile e allo stesso tempo affascinante dea Morrigan. Ella era la dea della morte e della guerra. Amava tramutarsi in varie forme a seconda della situazione che lo richiedesse. La sua forma preferita era il corvo che sui campi di battaglia accompagnava i soldati sventurati per poi cibarsi della carne delle vittime. Vestiva di rosso come i suoi capelli perhè il rosso è il colore dell’Adilà. Era vista viaggiare sul suo carro guidato da un destriero fantasma. L’Irlanda è anche conosciuta con il nome originale di Eire che deriva da Eiru, che insieme alle due sorelle Banba e Fodla era regina della Tribù dei Danaan, figlie di Ernmass a sua volta figlia di Nuada, Re dei Tuatha de Danaan. Nuada, detto anche Nuada Airgetlam, fu colui che possedeva la mitica spada Claim Solais, destinata a dare vittoria a chi la impugnava. Egli fu colui che guidò i Tuatha de Danaan prima nel paese di Lochlann (Norvegia), già all'epoca abitata dai Fomoire. Qui all’epoca i Tuatha strinsero alleanza con questi ultimi e vi furono anche delle unioni matrimoniali tra i due popoli. Dopo un certo periodo di stanziamento in queste terre, i Tuatha ripresero il viaggio verso Alba (Scozia) per rimanerci 7 anni. Quando cominciò ad essere piuttosto numerosa, la Tribù dei Thuata de Danaan ripartì di nuovo, questa volta alla conquista di Eiru (Irlanda) dove dovette vedersela con i Fir Bolg. I Tuatha erano un popolo suddiviso in tre classi sociali distinte: c’erano i nobili condottieri, i sapienti druidi esperti in arti magiche, e gli abilissimi artigiani nelle attività creative ed artistiche. I Tuatha eccellevano in tutto. Per queste qualità, oltre che essere molto longevi, erano visti dalla gente comune come degli dèi immortali. In realtà erano esseri mortali come tutti gli altri solo che vivevano molto più a lungo. Pertanto si era creduto che forse i Tuatha provenissero dall’Isola “dell’Eterna Giovinezza”, Tir na Nog, un’isola lontana avvolta nella nebbia, raggiungibile dopo una serie di lunghi viaggi, come andare in un altro mondo dove non esistono morte e malattia, dove la vita qui è fatta solo di cose piacevoli. 

Un eroe di altri racconti (come quello di Finn), visitò questa terra remota rimanendo affascinato da tanta bellezza che per qualche giorno vi soggiornò. Tuttavia egli dovette ritornare in patria e sebbene fossero trascorsi pochi giorni dalla sua lontananza, al rientro a casa passarono invece molti anni (viaggio spazio temporale ?). Quando i Tuatha atterrarono sul suolo irlandese a Connaught, sulla Montagna di Ferro, nella contea di Leitrim, essi scesero dalle loro Nubi che per tre giorni oscurarono il sole. Non furono ben accolti dai Fir Bolg, i quali dopo una serie di trattative finite male, mossero guerra contro i Tuatha. A sei settimane dal giorno dell’arrivo dei Tuatha (intorno al solstizio d’estate), ebbe così inizio la battaglia di Mag Tuired (la Pianura dei Pilastri), dove i due schieramenti guidati dai loro rispettivi re e valorosi combattenti si scontrarono duramente. La feroce battaglia dove vide cadere in campo numerosi eroi da entrambi le parti contese, durò 4 giorni, e in questi 4 giorni si innalzarono tanti tumuli e pilastri in pietra in onore dei caduti. Il quarto giorno sembrava che i Tuatha avessero la peggio, in quanto durante un violento duello, il guerriero dei Fir Bolg, Sreng mac Sengainn con la sua spada recise di netto all’altezza della spalla il braccio destro di re Nuada dei Tuatha, mandandogli in frantumi lo scudo. Nuada fu subito difeso da Dagda e i capi dei Tuatha lo portarono via in salvo dal campo. Questo fatto comportò un iniziale smarrimento tra le truppe Tuatha, ma immediatamente dopo, la guerra riprese con maggior irruenza ed atrocità tra colpi di spada e terribili incantesimi dei druidi di entrambi gli schieramenti,fino a che il valoroso re supremo di Eiru dei Fir Bolg, Eochaid mac Eirc, venne ucciso. La guerra terminò il quinto giorno con la resa dei Fir Bolg, nonostante questi nell’ultima furiosa incursione fossero riusciti a sfondare le difese nemiche ed entrare vincendo ogni resistenza. Sreng mac Sengainn e Nuada si trovarono di nuovo uno di fronte all’altro. Dal momento che il re dei Tuatha era mutilato, debole e sofferente il capo dei Fir Bolg decise con gesto magnanimo di interrompere qui i combattimenti, poichè era giunto alla conclusione che comunque fossero andate le cose, la guerra avrebbe causato solo ulteriori ed innumerevoli perdite tra centinaia di uomini e donne da entrambe le parti... ed aveva già portato via i migliori. Quindi si arrivò a stipulare un patto di pace tra i due popoli con la vittoria attribuita ai Tuatha e i Fir Bolg potevano scegliere di restare nelle 5 province di Eiru di loro preferenza. Essi scelsero di stabilirsi nel Connacht. C’è chi dice che i superstiti dei Fir Bolgs lasciarono Eiru per rifugiarsi dai Fomore nelle isole di Ara e Ile, Mana e Rachra dove vi costruirono delle imponenti fortificazioni che tutt’oggi possiamo ammirare e a cui è difficile dare una datazione precisa. Tra i monumenti di questo tipo più suggestivi dell’Europa preistorica è la fortificazione di Dùn Oengusa a Inishmore, realizzata su una scogliera a strapiombo sul mare da un’altezza di 61mt.. Quindi i Tuatha furono i Signori d’Irlanda, o Eiru, e regnarono dal 1897 al 1700 a.C., quando re Nuada venne destituito perché, gravemente ferito, pertanto non era in grado di governare il Paese, che secondo loro tradizione un sovrano fisicamente non perfetto non poteva regnare. Al posto suo sedette al trono il campione Eochaid Bress che divenne il primo re Tuatha di Eiru, misto sangue con i Fomore (madre Tuatha de Danaan e padre Fomore). Il suo mandato però durò solo sette anni. Fu mandato via a causa del suo malgoverno che lasciò la popolazione in miseria e povertà. Bress si ritirò con la madre, Eri, nel paese del Side, dove dimoravano i Fomore per chiedere un esercito potente al fine di combattere i Tuatha e di prentendere indietro la terra di Eiru con la forza, sebbene non ne fosse degno . Nel frattempo Nuada ritornò con un braccio nuovo d’argento attaccato alla spalla (una sorta di protesi? A quale operazione di chirurgia bionica Nuada fu sottoposto?) il quale potè riprendersi il suo trono. I Fomore potrebbero essere stati uno degli ultimi sopravvissuti di Atlantide che emigrando verso Nord, si stabilirono in queste terre boreali. Secondo il mito, erano descritti come esseri giganteschi e a volte mostruosi come Balor, ed erano in possesso di una tecnologia avanzata, sconosciuta ai comuni mortali di quel tempo. Ad esempio, ricordiamo l’arma letale di Balor, costituita dall’unico occhio sulla sua fronte,che sprigionava un fascio incandescente di luce da bruciare chiunque e qualsiasi cosa. Addirittura ci volevano 4 uomini per sollevare la pesante palpebra per chiudere l’occhio...il che fa pensare benissimo come già anticipato nel precedente post, a un ordigno meccanico più che a un orrido ciclope. Stando ai racconti antecedenti erano persone fisiche, sicuramente alte di statura, che una volta conosciuti i Tuatha de Danaan e venuti a contatto con loro, finirono con imparentarsene. Infatti Bress, detto il “bello” era figlio di Eri della tribù dei Danaan, e di Elatha della tribù de Fomori. Si dice che la bella Eri guardava le terre e il mare dalla casa di Maeth Sceni quando si vide arrivare dalle onde una barca d’argento con a bordo un uomo di bell’aspetto, vestito di tessuto dorato e con i capelli biondi lunghi fino alle spalle. Aveva una spilla con una pietra preziosa al petto e cinque cerchi d’oro al collo. Con sé portava due lance d’argento con la punta di bronzo e una spada dall’elsa d’oro con intrecci e borchie d’oro. Lui era venuto apposta per unirsi a lei sebbene lei non lo avesse mai visto prima di allora. Dalla loro unione, come Elatha le aveva predetto, nacque Eochaid Bress, il Bello, il quale già da subito si rivelò essere un bambino più grande della media, dalla crescita rapida fino a che non diventò alto, bello e forte. Da fonti poco dettagliate, sembra che i genitori di Bress avessero avuto lo stesso padre e quindi sarebbero dovuti essere fratello e sorella, in quanto dai testi genealogici irlandesi Delbaeth mac Neit era il nome del padre di Elatha, ma anche Eri aveva avuto il padre col nome di Delbaeth. Bress una volta umiliato e scacciato dal regno di Eiru si rifugiò con sua madre Eri presso i Fomore e qui chiese l’intervento armato a Balor e al re dei Fomore, Indech mac De Domnann. Nel giorno del Samain (dal 1° di novembre), a trent’anni di distanza dalla prima grande battaglia, stava cominciando la seconda battaglia di Mag Tuired, dove vide un grande dispiegamento di eserciti pronti a tutto, sia dalla parte dei Fomori che ambivano di conquistare la terra di Irlanda e dall’altra i Tuatha de Danaan con i suoi valorosi combattenti armati di spade e lance le cui lame erano state forgiate con grande maestria e con una tecnica sbalorditiva dai loro abilissimi fabbri ed artigiani. 

Tra le fila dei Tuatha spiccò la figura di Lug considerato poi secondo la leggenda irlandese come il dio della luce o del sole o, secondo un’altra interpretazione, era adorato come il dio del fulmine e dei lampi come Zeus o come Indra, il dio Indù della pioggia di tradizione vedica indiana. Su Lug, il campione dei Danaan, si narra che era figlio della bellissima Ethné, a sua volta figlia di Balor, concepito durante uno degli incontri furtivi tra lei e suo cugino Cian, il quale era riuscito a conoscere i segreti di come entrare nella impenetrabile Torre di Vetro situata nella gelida isola di Tor Inis, dove Ethné era segregata fin da bambina dal padre per via di una profezia. Molto tempo prima un Druido profetizzò che Balor sarebbe stato ucciso per mano di suo nipote. E’ per questo che il terribile Fomore dall’occhio malvagio, fece rinchiudere sua figlia sola con le sue nutrici nella torre affinché non potesse incontrare nessun uomo. Tra i testi mitologici che riportano con maggior dovizia e dettaglio la figura di Lug, Cath Maige Tuired è il più autorevole. Ma sulle origini dell’eroe ci sono diverse versioni non molto dissimili tra loro e comunque ci si è affidati alla leggenda di Kian son of Kontje, basata su un racconto fatto a viva voce da una anziana contadina di Achill Island. Lug neonato, affinché non venisse scoperto dal nonno Balor, venne affidato alle cure del Druido Manannan mac Lir, il cavaliere del mare increspato, il quale lo adottò e lo educò insegnandogli le arti magiche. 

Ritornando alla battaglia che divampò in tutta la sua ferocia, dove dalla parte dei Fomore combatteva un’armata imponente e dalla parte dei Tuatha de Danaan c’erano campioni ed eroi, lo stesso re Nuada, i Druidi con i loro potenti incantesimi e sortilegi, e la dea Morrigan. Il fatto che i Fomore avessero dei legami di parentela con i Tuatha de Danaan, la battaglia ricorda il Mahabaratha indiano dove appunto si narra la guerra dei fratelli Pandava contro i loro prepotenti cugini Kurava. Le due schiere si lanciarono l’una contro l’altra levando urla spaventose. Lo scontro corpo a corpo dei guerrieri fu assordante tra il cozzare degli scudi, il fendere delle spade e il sibilare delle lance, tra le terribili grida e i colpi inferti. Caddero morti molti uomini. “Orgoglio e vergogna stavano fianco a fianco. C’era collera e c’era furore”. Tra i caduti ci fu anche re Nuada.L’occhio di Balor lanciava il suo malefico potere distruttivo contro chiunque lo fissasse. Lug avanzò verso Balor deciso a vendicare la morte di Nuada e pronunciando un lungo incantesimo, scagliò una pietra con la fionda centrando in pieno l’occhio non appena questo veniva aperto con l’aiuto di 4 uomini. La pietra trapassò la testa di Balor facendo ribaltare all’indietro l’occhio, così che lo sguardo si rivolse verso l’armata alle spalle del gigante, uccidendo in questo modo l’intero esercito dei Fomore e il corpo di Balor cadde a terra senza vita schiacciando a morte sotto il proprio peso diversi suoi guerrieri. Così si compì la profezia secondo la quale Balor era destinato a morire ucciso da suo nipote Lug che dopo la vittoria divenne il nuovo re dei Tuatha de Danaan di Eiru…   

 

Fonti internet: Atlantis re-investigated – Bifrost miti, Celti Irlandesi – blog Fratellanza Pagana