Misteri Eleusini, Pitagora, i Druidi
I misteri e le iniziazioni egiziache si ripetono sostanzialmente in Grecia, nei misteri bacchici, dionisiaci, orfici, eleusini. Nella Fenicia la leggenda di Osiride, accomodata ai luoghi, divenne la leggenda di Venere e Adone, che, per la sua meravigliosa bellezza, piacendo ugualmente a Venere e a Proserpina, per sentenza di Giove, a impedire il divino litigio, doveva rimanere per quattro mesi presso dell’una, per altri quattro presso dell’altra e per altrettanto tempo, a compir l’anno, libero e padrone di sé. Però Adone, cacciando sul monte Libano, fu fatto a brani da un cinghiale: Venere tanto pianse sulla salma di lui, che Cocito, discepoli di Chirone, ne ebbe pietà, e restituì Adone alla vita.
Il culto adonisiaco si diffuse rapidamente dalla Fenicia in Siria, in Persia, in Grecia, in Sicilia; perfino la Giudea ebbe il suo Adone in Thammur, che, come narra Ezechiele, era pianto ogni anno dalle donne ebree, assise in silenzio sulla porta delle loro magioni.
I misteri cabirici in poco differenziavano da quelli di Adone: vi si ripetevano le identiche allegorie. Lo stesso può affermarsi delle iniziazioni Frigie e dei misteri dei Coribanti che si celebravano a Pessinunte, nell’equinozio di primavera, in cui il sole trionfa delle tenebre.
I Misteri Eleusini si celebravano in onore di Cerere, la greca Iside, madre e nutrice di popoli, venuta dalla Sicilia, fertilissima di biade, a dar leggi, costumi e patria alle genti selvagge e disperse. Vagò piangendo per il mondo in cerca della figlia Proserpina, rapitale da Plutone. Eleusi la ospitò, le eresse un tempio magnifico e istituì nel suo nome e per il suo culto, feste, misteri, e sacerdozi.
Le feste eleusine duravano nove giorni e consistevano in cerimonie espiatorie, astinenze, lustrazioni, giuramenti di mantenere il segreto. Le iniziazioni sembra si componessero di tre gradi: Telessi, Misti e Copti. Non vi erano ammessi gli epicurei, i barbari, gli empi. Dei rituali, con i quali si celebravano, esistevano più copie ai tempi dell’imperatore Giuliano: fino a noi non ne giunse pur’una: comunque ne scrissero alcuni ed è quindi possibile indurne congetture di verità.
Gli iniziandi venivano coperti di pelli di fiere, a simboleggiare che essi erano quasi selvaggi, quando si avvicinavano al tempio, scuola di cultura e di civiltà. Uno dei simboli più eloquenti è il tramandarsi dall’uno all’altro iniziando della fiaccola accesa, rappresentante la perpetuità della vita e il prodotto dell’ingegno e del lavoro umano che ogni uomo morendo consegna al suo successore; simbolo che Lucezio espresse nella classica frase: «Quasi cursores vitai lampada tradunt». Parlando degli iniziati ai grandi misteri, Platone scriveva: «siccome quelli che sono iniziati, sulle prime si radunano con tumulto e grida, ma, maturandosi i sacri riti, vi attendono con timore e silenzio; così nel principio, innanzi alle porte della Filosofia, si offre alla vista molto tumulto; ma chi viene dentro e vede la gran luce, quasi essendosi aperto il sacrario, prendendo un altro contegno, con silenzio e stupore va appresso alla ragione, umile e composto, come appresso ad un nume».
Olimpiodoro, in un commento al Fedone, descrive così i vari momenti dell’iniziazione Eleusina: «nelle cerimonie sacre si cominciava con la lustrazione pubblica; poi venivano le purificazioni secrete; succedevano le riunioni; quindi le iniziazioni propriamente dette, finalmente le intuizioni».
Apuleio con la sua solita forma concettosa e bizzarra si esprime così: «domanderai forse con non poca ansietà, o studioso lettore, ciò che poi si disse e si fece in quei misteri: lo direi, se il dirlo mi fosse permesso, e tu lo sapresti, se ti fosse permesso ascoltarlo; ma cadrebbero in pari colpa e le orecchie e le lingue per la temeraria curiosità. Comunque, poiché tu sei commosso dal desiderio di apprendere, non ti lascerò in più lunga inquietudine. Ascolta dunque e credi alle cose che sono vere: mi accostai al confine della morte e calpestai la soglia di Proserpina; fui trasportato per tutti gli elementi; feci quindi ritorno. Nel mezzo della notte vidi il sole fiammeggiante di candido lumme, fui in presenza degli dei e li adorai da vicino. Ecco che ti ho raccontato tali cose, le quali, per quanto tu le abbia udite, è forza che ti siano ignote per sempre».
Lo stesso Grisostomo nei suoi discorsi accenna al neofita introdotto sotto volta di ampiezza e magnificenza stupende, e lasciatovi solo in mezzo a spettacoli mai veduti, nei quali le cose belle e terribili, le tenebre la luce si alternavano.
E Claudiano nel Ratto di Proserpina esclama imitando Virgilio: «ritiratevi, profani, un’estasi divina si impadronisce di me: bandisco dal mio cuore ogni sentimento mondano: il tempio trabalza, un gran chiarore spande la fulgore; il dio si svela presente: un sordo rumore freme negli abissi della terra: ne echeggia il tempio di Cecrope, Eleusina agita le sacre torce, fischiano i serpenti di Trittolemo e lontano la triplice Ecate appare». Bacco, nelle Rane di Aristofane, afferma che soltanto gli iniziati abitano i Campi Elisi.
L’Epoptia, il grado supremo dell’iniziazione, riproduceva le pratiche dei misteri Isiaci. Si apriva la cerimonia col solito «Procul esto, profani»; succedevano i giuramenti e le interrogazioni, come nelle cerimonie Adonisiache: susseguivano nuove purificazioni, dove i Misti, o gli iniziati al secondo grado, indossavano pelli di capriolo, quindi abiti nuovi per l’iniziazione: ciò si faceva nel vestibolo, essendo chiusi il tempio e il santuario, che raffigurava l’universo, vasto e magnifico. Ad un tratto si spegnevano lampade e fiaccole: si ripetevano gli orrori e i terrori dell’iniziazioni egiziache. Attraverso le tenebre, per estesi anditi e contorti meandri, l’iniziando doveva aprirsi la via. Visioni paurose simboleggiavano il corso della vita profana: la terra tremava sotto i suoi piedi, il tempio si scuoteva e spaventosi strepiti rompevano i profondi silenzi. Subitanee vicende di luce e di tenebre, fra lampi e tuoni, mostravano spettri, emblemi delle passioni e delle false idee, di cui l’anima pellegrina andava svestendosi.
Arrivato al vestibolo della morte, - dell’uomo vecchio – e poi a quello della iniziazione, - dell’uomo nuovo – ogni cosa assumeva più terribile aspetto, era tutto orrore e sorpresa. Un brivido invade il neofita, sudor freddo lo bagna come quello dell’agonia, barcolla, e sta per mancare, quando repentinamente la scena si cambia: si spalancano le porte del tempio. In mezzo a un torrente di luce appare il simulacro della dea: era l’epoptia, la rivelazione completa della divinità. Avvenuta l’iniziazione, forse avevano luogo danze simboliche, certo si cantavano inni orfici che proclamavano l’unità di Dio, ne esaltavano la onnipotenza, bontà e fecondità. Nel «Mundus Cereris» - libro rituale e scientifico, che ogni iniziato doveva copiare e mandare a memoria – si ricordavano le tradizioni intorno all’origine dell’universo. Clemente Alessandrino afferma infatti che le dottrine rivelate nei misteri si riferivano ai temuti arcani della natura. Gli iniziati apprendevano le cagioni delle fasi lunari e delle eclissi del Sole e tutta la cosmogonia conosciuta dagli Egiziani, esposta nel «Timeo» di Platone e nelle «Metamorfosi» di Ovidio, più che ad altro, intesa a glorificare la prima, sola, universa cagione di tutte le cose, unde – come cantò Virgilio – hominum genus et pecudes, unde imber et ignes; la Caussa Caussarum di Cicerone.
Fra gli inni orfici riproduciamo quello a Cerere, venerata nei misteri eleusini, il quale spira tanto amore e tanta dolcezza, che non cede, se pur non li supera, a quelli meravigliosi di Lucrezio a Venere e di Dante a Maria: «Dea, madre di tutti gli esseri, divinità dai mille differenti nomi – ritorna il concetto di Isis Mirionima – augusta Demeter, nutrice dei giovani; tu che dai ricchezze e felicità, che fai nascer le spighe, che tutti i beni sei prodiga, che godi della pace e dei faticosi lavori dei campi, che diffondi le semenze, accumuli i covoni, benedici l’aia, indori la messe ed eleggesti per tua dimora le sante valli di Eleusi; amabile e graziosa Dea, che nutrisci tutti i mortali, che prima piegasti al giogo il faticante bue e desti agli uomini il migliore e più soave alimento; tu che favorisci la vegetazione, che partecipi agli altari di Bacco, che porti in mano fiaccole, che sei pura, che fai tuo diletto la falce mietitrice; tu che abiti sottoterra; tu che a tutti soccorri; madre feconda che ami i fanciulli; vergine augusta che nutri le crescenti generazioni; tu, che guidi dragoni attaccati al tuo carro, che si piegano con trasporto a formare orbite intorno al tuo trono; madre di un’unica figlia e insieme di molti figliuoli; dai mortali venerata, che sotto mille forme ti sveli, ricca di sacra vegetazione, di mille fiori adorna; vieni, o beata, o santa Dea; vieni carica dei tesori della messe; teco conducendo la pace, il buon ordine, la ricchezza feconda di godimenti e la sanità, di tutti i beni madre e regina».
La leggenda di Cerere facilmente si decompone dinanzi alla critica. Cerere è l’alma parens frugum; Proserpina – in greco, il frutto nascosto – la semenza, il nero Plutone il terreno: quindi l’allegoria della favola. La semenza è sepolta dall’aratro, rappresentato dal ferreo carro, su cui, tratto da neri cavalli, Plutone trasse Proserpina nei regni sotterranei: Cerere, figlia di Saturno – del tempo – e di Opi – della natura – figura il germe che matura col tempo: le fiaccole di pino accese alle vampe dell’Etna, con le quali Cerere rintraccia la figlia, rappresentano il Sole e la Luna che fanno germogliare la semenza; il sotterraneo fiume Aretusa è simbolo del necessario concorso delle acque; Proserpina, costretta a vivere sei mesi con Plutone, e altrettanti con Cerere, è l’emblema dei tempi indispensabili alla fecondazione e alla germinazione. La formidabile Ecate compendia la leggenda: triforme o tergemina rappresentava i tre stati della germinazione: quando il seme è sotterra, è Proserpina; quando spunta, è Diana, amica dei campi; quando, fatto spiga, matura e si innalza, è la Luna che grandeggia nei cieli. E si rappresentava con quattro mani: in una portava una fiaccola, la scienza sacerdotale; nell’altra una chiave, accesso alla scienza; nella terza un serpente, la prudenza a conservar la scienza; nella quarta un flagello, castigo ai traditori della scienza.
Ecate era terrifica a chi scendesse nell’Averno per passare agli Elisi, cioè a qualunque iniziato: invocata solennemente, diveniva depositaria e vindice del giuramento. E sotto l’allegoria semplice del seme che gettato nel terreno, coperto dall’aratro e nutrito dalle acque, si sviluppa, germoglia, cresce e matura, un’altra più profonda dottrina morale si nascondeva: il seme simboleggiava la mente, i processi della vegetazione frumentale adombravano le varie condizioni della mente sino alla maturità, e il frumento, passato per il vaglio, raffigurava la purificazione dell’anima. In questi misteri si conteneva molta parte della greca filosofia, poiché essi, nella poetica simbologia dei fantasmi, custodivano e adombravano l’intima natura ed essenza di tutte le cose. Gli iniziati professarono dunque una filosofia pratica e rappresentativa, ridotta a istituzione per assicurarne la durata, misteriosa per accrescerle sicurezza e venerazione.
Un solo culto si celebrava negli antichi misteri: il culto della natura, personificata, come vedemmo, nel sole.
L’iniziazione ai più alti gradi era lo spogliarsi del simbolismo, veste dei gradi inferiori e di tutti i popoli e di tutte le credenze esoteriche: i supremi iniziati assumevano vesti candide, semplici, modestissime, quali si convengono a maestri e sacerdoti di verità, e si addentravano, spiriti liberi di paure, di passioni, di pregiudizi, nell’intima natura dei fenomeni e delle cose, nello studio delle umane istituzioni per migliorarle e volgerle al bene comune.
I misteri di Eleusi durarono circa duemila anni e vennero fino al 380 dell’era volgare: da ultimo furono abbattuti con la violenza, dall’imperatore Teodosio, o perché fossero, come alcuni ritengono, degenerati, o perché alle vecchie e gloriose istituzioni sacerdotali dovesse, per fatalità storica, sovrapporsi il giovane Cristianesimo.
Pitagora
Di Pitagora, e della sua Scuola Italica, o istituto, o sistema, nulla si sa direttamente da lui: nessuna sua opera poté resistere alla guerra del tempo; ne scrissero ammirati Platone e Aristotele. Nacque da Menesarco a Samo, nella quarantanovesima Olimpiade verso l’anno 584 avanti l’era cristiana; fu discepolo di Feracide, il filosofo – che Cicerone dice contemporaneo di Servio Tullio – e forse di Talete e di Anassimandro. Si crede, come fu detto, che viaggiasse nella Fenicia, nella Persia, nell’India, in Egitto: comunque è certa la parentela fra le iniziazioni egiziache e le pitagoriche. Fermatosi a Cotrone, vi fondò la sua scuola o meglio la sua comunità filosofica, intesa – è bene notarlo per certe attinenze con gli odierni scopi massonici – non solo alla riforma del costume, oggetto della Massoneria simbolica, ma anche della legislazione e della politica, oggetto dei più alti gradi della Massoneria filosofica.
Mischiatosi nelle lotte politiche, dopo la distruzione di Sibari, il sistema o lo stato pitagorico fu assalito da discordie intestine. Cilone, espulso o non ammesso nell’Ordine per cattivi costumi, fu contro i Pitagorici; gli sorprese proditoriamente nella casa di Milone e ne fece macello: le abitazioni loro furono abbattute, dispersi i tesori scientifici e artistici che vi erano raccolti, incendiate le biblioteche. Pitagora poté salvarsi a stento e trovare asilo in altre città; ma poi dovette soccombere, forse anche egli per violenza, a Metaponto, dove Cicerone vide il luogo in cui la tradizione affermava che il grande filosofo avesse incontrato la morte.
Erodoto parla di un ordine segreto dei Pitagorici, di rituali, di culto arcano e di orge. Giova notare che l’orgia non era presso gli antichi ciò che più tardi fu espresso dalla parola: l’orgia cominciò ad assumere significato di stravizio ignominioso, quando le feste di Cerere, dei Cabiri e di Bacco, alterata l’idea che le informava in principio, degenerarono nel più osceno libertinaggio.
Innanzi di essere ammessi nell’Ordine pitagorico, gli iniziandi dovevano subire prove lunghe e difficili. Pensano alcuni, sulla fede di Giamblico, che vi fossero ricevute anche le donne. I precetti pitagorici che giunsero in parte fino a noi col nome di «Versi Aurei», insegnano una morale purissima; combattere e vincere le malattie del corpo, l’ignoranza, le passioni bestiali, le discordie nelle famiglie, le sedizioni nelle città: aiutare i fratelli, non aver inimicizia con loro, fare il bene, dire e propugnare la verità; coltivare ogni virtù, come via per arrivare all’amore: come l’armonia nasce dall’accordo di suoni gravi e acuti, così la virtù derivare dall’accordo di tutte le facoltà dell’anima sotto l’impero della ragione.
Nella Scuola pitagorica prevalgono i simboli numerici e geometrici, fra i quali il triplo triangolo, il pentagono e il cubo, simboleggianti giustizia e uguaglianza perfetta. Secondo Pitagora, che primo dette al mondo il nome di cosmos per indicarne l’ordine e l’armonia, i numeri sono princìpi delle cose e a queste anteriori, e vedeva in essi, piuttosto che nel fuoco, nella terra, nell’acqua, assoluta analogia con ciò che è e si produce. Una data combinazione numerica era per i Pitagorici la giustizia, tale altra l’anima o l’intelletto, e trovavano nei numeri le combinazioni dell’armonia musicale. Gli elementi dei numeri confusero con gli elementi degli esseri; dissero che gli enti sono a imitazione dei numeri e Platone, che tanto attinse alla scuola Pitagorica e che intitolò uno dei suoi migliori dialoghi da Timeo – discepolo di Pitagora – disse che gli enti sono per loro partecipazione coi numeri: la formula è diversa, ma identica la dottrina.
È certo che i Pitagorici aprivano le loro riunioni a mezzogiorno, trattenendosi in speculazioni filosofiche, in esercizi ginnici e anche in canti e in suoni. La sera si sedevano alla mensa comune: a mezzanotte si separavano. Tanta fu la venerazione dei Pitagorici per il loro maestro, che cessava ogni controversia quando potesse invocarsi la sua autorità: quindi il famoso «ipse dixit» che Cicerone attribuisce appunto ai discepoli di Pitagora.
Dopo l’eccidio dei Pitagorici, la scuola si disperse e ammutolì, ma lo spirito che l’informava le sopravvisse e penetrò e agitò quel recondito moto sociale e filosofico che procede parallelo e costantemente avverso alle manifestazioni del pensiero teologico, al dogma religioso e politico, che inceppa la libertà del filosofo e del cittadino. Questa antitesi meravigliosa, che nel sistema pitagorico era adombrata nel conflitto fra gli opposti numeri e principi, unità e plurità, pari e dispari, inerzia e movimento, luce e tenebre, bene e male, continua attraverso la storia, genera le sante ribellioni dello spirito umano e determina, nei tempi nostri, le vittorie della libertà. Ecco forse perché le istituzioni che intendono all’emancipazione dell’intelletto e della coscienza, fra le quali primissima la Massoneria, considerano Pitagora come uno dei loro antichissimi progenitori, come un punto lontano, da cui si stacca quel raggio luminoso, che disperde le tenebre e i mali addensati sull’umanità dalla superstizione e dal privilegio e prepara la desiderata e divinata età, nella quale il trinomio massonico, sinceramente e integralmente tradotto nel diritto pubblico, darà sicuro, armonico, fraterno componimento al consorzio civile.
I Druidi
Una tradizione, in verità non troppo attendibile, vorrebbe che Pitagora avesse viaggiato anche fra i Druidi togliendone dottrine e norme per l’istituto da esso fondato in Cotrone. Certo il Druidismo professò princìpi non disformi dai Pitagorici; ammetteva un ente supremo e l’immortalità dell’anima. Molta affinità ebbero i Druidi anche con i Magi Persiani e con i Bramini dell’India. La verga druidica ricorda il sacro bastone braminico e la mezza luna di Shiva. I Druidi adorarono il fuoco, emblema del sole, ed ebbero in pregio l’uovo di serpente, prodigioso amuleto, che ricorda l’uovo cosmogonico delle mitologie orientali, la metempsicosi, o la riproduzione eterna degli esseri, che il serpente appunto simboleggiava. Ebbero templi circolari e scoperti nelle dense foreste, con immani pietre e tronchi effigiati, simulacri dei numi: portavano capelli corti, intiera barba e vestivano lunghe e candide tuniche. L’Ordine aveva tre gradi: i Druidi, i Bardi, gli Ovadi, cioè sacerdoti, cantori, educatori. L’aspirante doveva presentarsi ai templi selvosi con catene alle braccia, quasi servo che andasse in cerca di libertà. Ammisero anche le donne e una Druidessa e la spaventevole vendetta che i Druidi trassero di lei perché rea di violato giuramento di castità, inspirarono una delle più belle opere di Vincenzo Bellini.
Principale parte nei loro riti ebbe l’osservazione dei fenomeni planetari e sembra che le loro lunazioni rivelassero computi astronomici esattissimi. Furono i più fieri e implacabili nemici di Roma. Compiuta da Cesare la conquista delle Gallie, i Druidi furono dispersi, ma rimasero i Bardi, se non come sacerdozio, come possente corporazione, e anche essi ebbero iniziazioni e assemblee che tenevano in eminente e solinga pianura dinanzi alla faccia di Dio. Il Bardo, che presiedeva, stava assiso sopra pietra altissima: sguainando o ringuainando la spada apriva e chiudeva l’adunanza. Finirono nel 400 sotto l’impero di Odoardo III il Normanno che li fece trucidare, ne distrusse le case, ne bruciò i libri e ne disperse ogni reliquia.
Parenti dei Bardi furono i Drotti della Scandinavia. L’Edda descrive le iniziazioni ai sacri misteri: al neofita si insegna il nome del più antico dei numi – Al-fader – il Teutate druidico – che ha dodici nomi, a ricordare i dodici attributi del sole, le dodici costellazioni, i dodici sommi Dei degli Egizi e del paganesimo greco e romano. La leggenda di Balder – il buono – costituiva verosimilmente l’oggetto del cerimoniale iniziatorio nella teogonia scandinava: esso era Mitrea, il sole, l’amore. Fra gli dei del Valhalla v’è Hoder, il cieco – il destino – e Loke – il genio malvagio – e Freja – Iside, Cerere, la natura – e Thor – Ercole – e Nifiheim – l’inferno. La teogonia scandinava ispirò la Trilogia Wagneriana «l’anello del Nebilungo» poema musicale per vastità di concepimento, per magnificenza e solennità di musica, insuperato e, forse, mai più superabile.
Ulisse Bacci
tratto da “Il libro del vero Massone”
(dal Capitolo Origini)
Gherardo Casini Editore
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